Idee Un mese di presidenza
L’obiettivo di Trump? La fine dell’Unione europea
Di fronte ad una platea sbigottita venerdì scorso il vicepresidente Usa JD Vance ha attaccato a brutto muso la Ue rimarcando come le minacce alla sicurezza del vecchio continente provengano piuttosto dal suo interno che non da Russia e Cina. Non un caso, ma un obiettivo geostrategico ben definito
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Che con la nuova amministrazione americana le previsioni meteorologiche per l’oceano Atlantico fossero infauste era stato messo in conto; che, però, a meno di un mese dal suo insediamento, sulle relazioni transatlantiche spirassero venti così impetuosi di burrasca non era affatto previsto. C’era molta attesa per il discorso del vice-presidente James David Vance alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera. Si trattava della prima visita ufficiale in Europa di una figura di alto rango della nuova America, quella di Donald Trump. Di fronte ad una platea sbigottita venerdì scorso Vance ha attaccato a brutto muso l’Unione europea rimarcando come le minacce alla sicurezza del vecchio continente provengano piuttosto dal suo interno che non da Russia e Cina. Immigrazione illegale di massa e limitazione alla libertà di opinione, in particolare online, sono questioni che dividono le due sponde dell’Atlantico e minano, a suo dire, i valori comuni dell’alleanza occidentale.
Durante la sua breve apparizione in Germania l’unico politico tedesco incontrato da Vance è stata Alice Weidel, la leader di Alternative fur Deutschland, il partito di estrema destra con venature neonaziste sostenuto nella campagna elettorale in corso in Germania anche da Elon Musk. Pochi giorni prima era stato Aleksandr Dugin, l’ideologo ultranazionalista russo di riferimento di Vladimir Putin, a celebrare con un post “..La fine del globalismo. La fine dell’Ucraina. La fine del Canada. La fine dell’Ue…”.
Dopo il lungo colloquio telefonico a sorpresa fra Trump e Putin si stringe la morsa che rischia di stritolare l’Europa. I leader del vecchio continente faticano ad abbozzare una reazione credibile mostrando tutti i limiti di un’Unione presa alla sprovvista dal rapido avvitamento degli eventi. Il vertice fra la delegazione americana guidata dal Segretario di Stato Marco Rubio e quella russa condotta dal Ministro degli Esteri Sergej Lavrov che si è tenuto a Riad martedì è il primo passo. A detta dei partecipanti, di un disgelo che dovrebbe portare i due paesi alla piena normalizzazione delle relazioni, dopo la rottura consumata con l’invasione russa dell’Ucraina, e alla ripresa della cooperazione bilaterale a tutti i livelli. Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina siamo ancora in una fase preliminare nella quale le parti stanno definendo le posizioni con un intenso lavoro diplomatico degli sherpa dietro le quinte. Da un lato Trump, che potrebbe presto incontrare Putin, non perde occasione per fustigare Zelensky, dall’altro Rubio cerca di gettare acqua sul fuoco aggiornando i partner europei sulle iniziative in corso per tenerli buoni. Non si può non notare come il primo membro del nuovo esecutivo Usa a visitare Kiev sia stato il Segretario del Tesoro Scott Bessent, latore di un memorandum capestro in base al quale buona parte del patrimonio minerario dell’Ucraina verrebbe consegnato alle imprese americane per compensare, con gli interessi, gli ingenti aiuti di Washington in questi anni. Stesso tasto, quello economico, toccato anche dal ceo del Fondo Sovrano russo Kirill Dmitriev, membro della delegazione che accompagnava Lavrov a Riad, che ha prospettato per il capitale americano opportunità importanti per lo sfruttamento delle risorse naturali del suo paese. Detto in parole povere o, meglio, letteralmente in soldoni, per gli americani si tratterebbe di scegliere se a loro conviene di più investire a Kiev o a Mosca oppure se, in nome della “pace”, conviene lucrare su entrambi i fronti.
Alla faccia di chi crede ancora, come larga parte della società civile, che la politica estera debba poggiare su di una solida base etica. Siamo di fronte ad una svolta epocale. Non è affatto casuale che né Trump, né Putin quando parlano di Ucraina omettano ogni riferimento al diritto internazionale. Fra i primi ordini esecutivi firmati dal presidente americano ci sono quelli che sanciscono il disimpegno dagli organismi internazionali. Unilateralismo, hard power e nuova Yalta sono i principi che oggi incarnano, senza più finzioni, la politica estera americana. Esattamente l’opposto dell’Unione europea la cui azione esterna è fondata sul multilateralismo, il soft power e il superamento dei blocchi. A unire le due sponde dell’Atlantico resterebbe la democrazia liberale, ma ancora per poco alla luce di quanto promesso da Donald Trump e proclamato da Elon Musk sotto lo sguardo compiaciuto e compiacente, a distanza, di Vladimir Putin.
Foto La Presse: James David Vance e Donald Trump
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