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Modelli d'impresa

Impresa sociale, conta più il management o la governance?

I dati dicono che un piccolo gruppo di persone, pari al 6%, amministra quasi 8.500 imprese sociali, cioè il 41,7% del totale. Un club ristretto che fa riflettere sulla presenza di concentrazioni di potere anche in ambito sociale

di Flaviano Zandonai

Il consolidamento del management e il peso crescente dell’accompagnamento consulenziale stanno mettendo in secondo piano una funzione e alcuni ruoli che avevano invece assunto una rilevanza cruciale nella formazione e primo sviluppo dell’impresa sociale. La prima è la governance e mentre i secondi sono rappresentati da tutte quelle figure che operano negli organi direttivi. Ben vangano quindi i nuovi dati di Unioncamere pubblicati nel nuovo rapporto Terzjus che aggiornano variabili ormai classiche come il numero di imprese sociali (ormai oltre quota 20mila), le loro conformazioni giuridico organizzative (con una crescente “biodiversità” rappresentata da soggetti diversi dal modello originario della cooperativa sociale), la loro distribuzione territoriale (con oltre la metà nelle aree del sud e isole), i settori di attività (con un declino del welfare e un aumento di altri settori come la cultura e i servizi di supporto ad altri enti), le dimensioni aziendali (con il permanere di un pulviscolo di micro soggetti a cui si contrappone un gruppo di poche imprese di grandi dimensioni). Ma non solo.


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Le statistiche camerali si occupano anche di amministratori e amministratici delle imprese sociali: sono poco più di 61 mila persone tra amministratori unici, consiglieri di amministrazione, presidenti e vice. Un primo aspetto interessante riguarda il carico decisionale. Mediamente si tratta di più di un incarico a persona ma c’è un piccolo gruppo pari al 6% che amministra quasi 8.500 imprese sociali cioè il 41,7% del totale.

Oltre a questo ristretto club – che fa riflettere sulla presenza di concentrazioni di potere anche in ambito sociale – ci sono altri aspetti rilevanti che si possono ricondurre ai principali elementi di “diversity” in una società maschile e anziana come la nostra. A spiccare è soprattutto la presenza di amministratrici che è pari a praticamente alla metà del totale. E’ vero che si tratta, in molti casi, di imprese dove la presenza femminile è molto più diffusa tra le lavoratrici e le socie e quindi esistono anche in questo campo blocchi alla parità di genere. Però è anche vero che nel complesso delle imprese di capitali la percentuale di donne nei board si ferma a poco più del 23% e tra le cooperative non sociali al 30%.

Quanto all’età è una generazione, la X, che tiene saldamente il comando delle imprese sociali senza distacchi particolarmente significativi né all’interno delle diverse tipologie di questa natura né rispetto all’imprenditoria in generale. Nelle imprese sociali infatti l’età media è di 50 anni mentre nelle imprese è di 54.

Ma oltre a questo identikit, comunque interessante, a queste persone che cosa è richiesto in questa particolare fase storica e ciclo di vita dell’imprenditoria sociale? In primo luogo, e non è mai inutile ricordarlo, di farsi carico del rischio d’impresa che per quanto “a responsabilità limitata” riguarda aspetti di crescente rilievo. Vale sia per la gestione ordinaria – basti pensare al sempre più complesso equilibrio nell’impiego e nella valorizzazione del capitale umano – che per operazioni straordinarie legate a investimenti infrastrutturali e tecnologici e a sviluppi organizzativi – ad esempio acquisizioni e fusioni – che sono sempre più necessari per garantire una produzione di beni e servizi di interesse generale in grado di generare impatti e ritorni economici.

Ma c’è un’altra questione, più profonda, legata alla necessità di contribuire alla rigenerazione di quella cultura della convivenza che come ricorda Gabriele Segre nel suo omonimo libro si basa sul riconoscimento e il rispetto di identità che sono sempre più multiple, dinamiche e contestuali. Un ruolo tutto politico che le nostre democrazie liberali sono chiamate, con urgenza, a rigenerare guardando non solo al funzionamento delle istituzioni pubbliche e delle imprese tradizionali sempre più in crisi di legittimazione presso elettori e stakeholder, ma sollecitando anche quei soggetti della società civile che da Tocqueville in avanti sono stati indicati come il vero e proprio fattore differenziale per un’autentica “libertà in comune”. Un apporto che oggi appare meno riconosciuto come porta d’ingresso a quella partecipazione civica che attraverso la dialettica del confronto pubblico elabora e mette in atto istanze di cambiamento che sfociano nell’arena della politica ma anche in quella dell’economia. I contenitori, cioè i modelli formali di governance, non mancano, anzi abbondano e sono sempre più sofisticati e a volte autoreferenziali nel senso che soddisfano più le esigenze di chi li architetta rispetto a chi li incarna. Forse è il tempo di rilanciare l’esercizio di ruolo, quasi la presenza fisica, di chi, come queste 60amila persone, agisce la leadership non solo come gestione di procedure decisionali ma attraverso una capacità di coinvolgimento capace di innescare e manutenere percorsi istituenti.

Foto: Pexels


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