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Riconoscere o conoscere?

I quadri vanno copiati, non contemplati

La maggior parte degli adulti non sa disegnare e non lo fa mai. La maggior parte degli adulti rimane muta e immobile di fronte ad un quadro e finché non legge la didascalia non sa che dire di quel che vede. Quando evapora il ricordo di quanto si è studiato, quando manca la spiegazione dell’audioguida, anche il riconoscere viene meno e il conoscere è un esercizio ignoto, che non si sa praticare. E allora occorre cambiare postura

di Stefano Laffi

La bicicletta è il mio mezzo esclusivo di mobilità urbana da sempre, vivendo a Milano ne ho cambiate parecchie, perché qui come in altre grandi città la bicicletta non la si possiede ma la si condivide, per forza, cioè prima o poi te la rubano, quindi nell’arco di una vita ne possiedi tante, mai nessuna per sempre. Eppure, pur avendone usate diverse, di fogge differenti, la volta che ho provato a disegnarne una qualunque, per qualche ragione, ero in difficoltà.

È strano, è un oggetto quasi bidimensionale, lo vediamo ogni giorno e lo immaginiamo solo di profilo, di fronte è come una T, ma di profilo dispiega la sua forma perfettamente riconoscibile. La bicicletta è in fondo una linea, disegnare le ruote è un attimo, ma è il telaio che non viene, è come un poligono che sfugge agli schemi mentali, per cui sbagli gli angoli, ti chiedi che inclinazione abbia quel segmento, se ti sei dimenticato un pezzo. Così, dopo averne sbagliato la forma mi sono trovato a osservarla, davvero, la bicicletta, proprio a fissarla.

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Nel visitare le mostre d’arte da ragazzo trovavo un po’ ridicoli quei gruppi che siedono davanti ad un quadro per riprodurlo, mi sembrava velleitario e un po’ patetico, al liceo classico era una bestemmia, avevi una tale riverenza verso l’Artista e l’Opera che l’ultima cosa da fare sarebbe stato mettersi a imitare. Oggi capisco che i due inviti allora mai ricevuti «Stefano, cosa ci vedi?» e «Prova a rifarlo tu!» – inviti che mi sarebbero sembrati agli antipodi dello studio dell’arte, per come mi era stata insegnata – erano esattamente quel che avrei dovuto sentirmi dire. 

Lo spiega bene Riccardo Falcinelli, introducendo la nuova edizione di “Guardare un quadro” di Mary Acton. Nel mondo anglosassone, ovvero nella terra dei manuali, ai musei si va per disegnare, perché è così che si impara a guardare – come scriveva anche John Berger – è l’attenzione la palestra della comprensione, l’esercizio del disegno la chiave per capire come è fatto. Da noi è un’altra storia, ovvero è la storia della pittura a guidarci, noi andiamo e ascoltiamo una guida che ci racconta le vicende dell’artista e della sua epoca, il movimento cui appartiene, i particolari del quadro e i loro significati, ecc. Cioè ogni quadro è “doppiato” da una guida o dal libro di storia dell’arte, la distanza fra noi e quell’opera si fa subito incolmabile, da lì in poi ci parlerà solo se conosciamo la sua storia, e più la conosciamo più capiamo che non è la nostra. Nel frattempo le nostre mani sono ferme, il nostro corpo è immobile, siamo il display su cui è proiettata la vicenda dell’opera.

Io ho l’impressione che questo non sia conoscere, ma riconoscere, e che questo errore di fondo permei tutta la nostra cultura e gran parte della didattica scolastica. Se non parti da quelle due domande che non mi sono mai state poste l’accesso al quadro è tutto mentale ed erudito, il piacere starà nel riconoscere un quadro impressionista, la pennellata di colore vivo di Van Gogh, il taglio di Fontana, ecc., come fosse un capolinea cognitivo, come se nel saperlo si chiudesse la partita con quell’opera. 

E invece bisognerebbe fermarsi un’ora davanti ad un quadro, fissarlo, chiedersi che cosa si vede, che cosa sembrano quelle forme, cosa si riconosce, che sensazioni lascia, che pensieri suscita, che domande apre, e poi provare a riprodurlo, per capire cosa c’è in primo piano e cosa sullo sfondo, quali scelte cromatiche opera, dov’è la luce, quale è la prospettiva, ecc. E poi raccontarsi che cosa succede nel disegnare, smascherare gli apprendimenti che derivano dal fare, ovvero il come dell’opera, non solo il cosa.

A quel punto, ma credo solo a quel punto, una volta che è stato aperto un varco fra sé e l’opera e il flusso di dialogo è stato attivato, può entrare in scena la storia dell’arte, la grande didascalia di cosa si sta guardando. Mi pare che questo sia conoscere, secondo una pratica non comune nel nostro approccio alla cultura, perché significa fermarsi a lungo su un quadro o pochi quadri senza necessariamente vedere tutta la mostra, scegliere brani di un libro anche senza leggerlo per intero, oppure studiare a fondo un libro nel corso di un anno scolastico e non l’antologia. Conoscere è una pratica ecologica e attiva, riconoscere è consumista, bulimico e passivo.

La maggior parte degli adulti non sa disegnare e non lo fa mai. La maggior parte degli adulti rimane muta e immobile di fronte ad un quadro e finché non legge la didascalia non sa che dire di quel che vede. Quando evapora il ricordo di quanto si è studiato, quando manca la spiegazione dell’audioguida, anche il riconoscere viene meno e il conoscere è un esercizio ignoto, che non si sa praticare.

A proposito di esercizio, c’è un trucco per disegnare la bicicletta, me l’ha insegnato la mia collega Sara: disegnate una M, i due estremi in basso sono gli attacchi centrali delle ruote, i due vertici in alto vanno uniti con un tratto orizzontale per fare la canna del telaio, aggiungete la linea della sella e quella dei pedali ed è fatta. Ora però provate a disegnare quel che credete di conoscere.

Foto di Pexels da Pixabay


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