Idee Partecipazione
I corpi intermedi come antidoto alla crisi della democrazia
Occorre prospettare una nuova stagione di democrazia territoriale che proponga soluzioni nuove rispetto alle due grandi tradizioni storiche fin qui dominanti: quella dell'autogestione su base comunitaria e quella della democrazia a centralità pubblica. L'intervento dell'open innovation manager di Cgm

Come sta la democrazia del Terzo settore? Meglio porsi anche questa domanda prima di addentrarsi in questioni più ampie che riguardano il futuro delle democrazie liberali degli Stati nazionali e dei loro aggregati più ampi come l’Unione europea.
Sì perché a differenza dei regimi autocratici quelli su base democratica per funzionare e per legittimarsi hanno bisogno di ancoraggi forti. In primo luogo a livello locale grazie ad assetti multilivello che sono concorrenti rispetto all’esercizio della funzione di governo, non limitandosi quindi a eseguire le direttive dall’alto.
In secondo luogo questo stesso assetto decentrato è anche partecipato perché non si risolve solo all’interno della pubblica amministrazione, ma chiama attivamente in causa quei “corpi intermedi” che oggi riconosciamo soprattutto nelle istituzioni del Terzo settore.
Il fallimento della democrazia inizia nei comuni?
Questo è – o dovrebbe essere – un sistema ben conosciuto e praticato in particolare all’interno di un contesto come quello italiano che si riconosce nella tradizione del municipalismo e del civismo. Ma fenomeni recenti ci dicono che tutto ciò non va dato per acquisito, anzi. E che forse anche questo livello “basico” è entrato in quella fase post democratica che il politologo Colin Crouch preconizzava ormai vent’anni fa.
Basti guardare a casi recenti come quello del Trentino, territorio emblema del localismo e dell’autonomia dove alle prossime elezioni ben il 40% dei comuni presenterà una sola lista, venendo così a mancare l’ingrediente chiave della democrazia cioè il confronto fra le parti. E l’assenza di dibattito potrebbe generare un ulteriore decremento della partecipazione col rischio, nei comuni con una sola lista, di non raggiungere il quorum minimo di votanti (da poco abbassato al 40%) aprendo così la strada al commissariamento e sancendo così il fallimento della democrazia proprio nel suo nucleo costitutivo, cioè quello comunale.
Tra autogestione e democrazia rappresentativa
Sembra quindi necessario prospettare una nuova stagione di democrazia territoriale che proponga soluzioni nuove rispetto alle due grandi tradizioni storiche fin qui dominanti. La prima è quella dell’autogestione su base comunitaria che riconosciamo ancora oggi in istituzioni ultracentenarie come le carte di regola, gli usi civici, ecc. e che, peraltro, stanno rinascendo in nuovi contesti, seppure di nicchia.
La seconda tradizione è quella appena descritta della democrazia rappresentativa a centralità pubblica che ha connotato, e ancora caratterizza, la repubblica in cui viviamo, anche se con crescenti problemi di legittimazione e partecipazione.
Una terza via basata sulle reti
All’orizzonte si configura anche una possibile “terza via” basata su reti fra soggetti istituzionali pubblici e del privato sociale che si fanno carico di programmare le politiche e di cogestire beni e servizi di interesse collettivo. Non è un assetto nuovo ma nel corso degli ultimi anni ha intrapreso un’accelerazione – anche per via normativa – che lo sta facendo evolvere da reti di rappresentanza d’interessi e sistemi di subfornitura per stazioni appaltanti pubbliche a veri e propri partenariati pubblico privati che investono su risorse e infrastrutture “comuni”. Basti pensare ad attività come i servizi di welfare, la protezione civile, la tutela di beni culturali e ambientali, le produzioni economiche locali, la cogenerazione energetica e altre che già sono riconducibili a questo modello di “amministrazione condivisa”.
Naturalmente non è un passaggio facile e soprattutto non è, o non dovrebbe essere, un modello che sostituisce gli altri, ma piuttosto un’opzione in più per rilanciare assetti di partecipazione collettiva chiamati a compiere, anche localmente, scelte ambientali, sociali e tecnologiche epocali. Gli strumenti, da questo punto di vista, ci sono o comunque, se necessari, si possono creare o tarare.
Il cambio di mentalità necessario
Serve piuttosto un cambio di mentalità rispetto a ciò che è d’interesse pubblico da parte di tutti gli attori in gioco, in particolare di coloro che costituiscono il “terzo pilastro” della società. La sfida infatti è impegnativa: l’adozione diffusa di assetti di amministrazione condivisa per la gestione di funzioni pubbliche sempre più rilevanti appare infatti in bilico tra una possibile terza democrazia accanto a quelle dell’autogestione e della rappresentanza o all’opposto come una nuova forma di post democrazia tecnocratica gestita da “tavoli” di addetti ai lavori cooptati attraverso procedure di accreditamento tagliate su misura.
A far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte sarà la qualità della governance delle compagini sociali in particolare associative e cooperative. Quell’assemblearismo orizzontale e quantitativo che però si fa fatica a vedere nel Terzo settore anche a causa di modalità di gestione dei “momenti” collettivi scanditi più da passaggi formali che da confronti generativi.
Tra scuole di politica e manutenzione democratica
L’auspicio è che nascano, o vengano rigenerate, scuole di politica che sappiano alimentare capacità di dialogo tra le diverse istituzioni della comunità, ma anche tra queste ultime e le persone – lavoratori, volontari, beneficiari – che al loro interno contribuiscono a farle funzionare guardando non solo a quello che producono e gestiscono ma anche alla manutenzione di quel sistema di relazioni sociali che fa da humus alla nostra democrazia.
In apertura Foto di Marco Vacca/Sintesi
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