Idee Ma come parliamo?

Fundraising, i beneficiari non sono mai “nostri”

Nel momento in cui si manifesta un bisogno ci si inscrive, quasi meccanicamente, dentro relazioni di potere che si manifestano nel linguaggio tecnico cosificante dell’intervento sociale: la “presa in carico”, oppure “l’invio”. Invece va ripensato il lessico. Chi beneficia delle raccolte fondi è il protagonista degli interventi

di Federico Mento

Nel 1988, Gayatri Chakravorty Spivak, una delle più influenti teoriche post-coloniali, pubblica “Can the subaltern speak?”, un testo destinato ad influenzare profondamente negli anni a venire la teoria femminista, la critica letteraria e gli studi culturali. In poco meno di 25 intensissime pagine, Spivak riconosce il fallimento del programma della storiografia dal basso dei Subaltern Studies indiani, incapaci, a suo avviso, di rompere con il nocciolo duro del pensiero positivista maschile occidentale.

Sia nelle storie degli intellettuali occidentali, imprigionati nel paternalismo benevolente, sia nel lavoro dei colleghi del collettivo dei Subaltern Studies, la donna nativa è “forclusa”, non può parlare, né essere ascoltata, perché qualcuno parla al suo posto. La sua voce è “ventriloquizzata”, imprigionata nelle relazioni di potere della società post-coloniale e, di conseguenza, la sua soggettività scompare.


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Proviamo, per un istante, a sostituire il termine subalterno con beneficiario. Confesso di aver provato e di provare costantemente un profondo senso di inquietudine sia nell’usare che nell’ascoltare il concetto di beneficiario. Se la donna nativa, descritta dalla Spivak, è impossibilitata a parlare, svuotata della sua agency, perché agita da altri, i beneficiari, ai quali viene con frequenza accompagnato l’aggettivo possessivo “nostri” come se ci appartenessero, si trovano in una condizione parimenti subalterna. Nel momento in cui si manifesta un bisogno e si diventa beneficiari, ci si inscrive, quasi meccanicamente, dentro relazioni di potere, quasi sempre non esplicite, che però si manifestano nel linguaggio tecnico cosificante dell’intervento sociale: la “presa in carico”, oppure “l’invio”.

Un primo passo per liberarci dall’equivoco del “beneficiario” è riconoscere l’esistenza di strutture profonde che determinano queste asimmetrie, cercando di incrementare i livelli di riflessività del nostro agire, facendo sì che il lavoro sociale sia una pratica costante di riflessività. Mettere in discussione, ad esempio, una certa idea di partecipazione, un ascolto che non vuole ascoltare davvero, quando a tavolino mi illudo di stilare l’analisi dei bisogni, perché altro non è che il riflesso pavloviano delle strutture di potere, del paternalismo che abita e orienta la cultura dell’aiuto.

E, ne sono convinto da valutatore, dobbiamo mettere profondamente in discussione, sin dal suo statuto epistemologico, la pratica valutativa, ancora impantanata nell’equivoco positivista di una conoscenza oggettiva che, nella presunta distanza dall’Altro, ritiene di trovare la legittimità per “dare la voce” ai beneficiari. Basta scorrere molti dei nostri report, per trovare i ritagli degli estratti delle interviste ai beneficiari, che nell’illusione della partecipazione, tornando a Spivak, rispondono alla logica del ventriloquismo. 

Ventriloquismo che spesso ritroviamo nelle strategie di fundraising delle nostre organizzazioni, attraverso l’uso delle immagini dei beneficiari, “esposti” senza aver modo di parlare, privati della propria agentività, rappresentati pietisticamente perché portatori di bisogni. 
Un primo passaggio è riconoscere e rendere palesi questi meccanismi che costruiscono senso, avere nel nostro lavoro sociale la consapevolezza dell’intricata e complessa microfisica del potere, per dirla alla Foucault, nella quale ci muoviamo, perché siamo dentro relazioni che hanno a che vedere con genere, età, provenienza ecc.

Lavorare sull’urgenza che le nostre organizzazioni si dotino di strumenti e processi in grado di aumentare la riflessività, stressare le ipotesi che sono alla base del nostro intervento, comprendere se stiamo replicando stereotipi o amplificando modelli stigmatizzanti. A partire dal ripensare al lessico del lavoro sociale, perché, parafrasando il Michele Apicella di Palombella Rossa, le parole sono importanti e le persone non sono pacchi “inviati” o “presi in carico”. Perché i beneficiari, provando a rimuovere ogni riferimento possessivo, sono in realtà i “protagonisti” degli interventi, e se non ci impegniamo a smontare i meccanismi di potere, continueranno a non parlare.

In apertura Photo by Jason Rosewell on Unsplash

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