Idee Finanza etica

Ecco cosa c’è dietro lo “sboom” borsistico dell’industria delle armi

Leonardo perde il 7,2% in un giorno malgrado l'arrivo nuove importanti commesse. Vanno male i titoli di altri gruppi internazionali impegnati nella difesa. Secondo i rumors influisce la recente vittoria Afd, che potrebbe indurre Scholtz a mutare atteggiamento sull'Ucraina e un possibile cessate il fuoco a Gaza. Una volatilità che dovrebbe suggerire agli azionisti di esigere una riconversione al civile

di Simone Siliani

Ecco, questo è ciò che succede quando un’azienda è troppo finanziarizzata e quando la sua attività produttiva è troppo sbilanciata verso un unico settore merceologico.

Succede quello che è accaduto in questi giorni a Leonardo SpA e, in generale, a tutto il settore di produzione degli armamenti: crollo generalizzato in Borsa del valore delle azioni.

Leonardo perde il 7,2% in un solo giorno, le tedesche Rheinmetall il 2,7% e Hensoldt il 6,3%, le francesi Thales il 2,3% e Airbus l’1,3%, le inglesi Rolls-Royce il 5,5% e Bae Systems il 2,9%.

Simone Siliani

I rumors degli addetti ai lavori

Come si spiega questa débacle di un settore che è stato sugli scudi (letteralmente!) per oltre due anni? Come se nulla fosse, gli analisti freddamente ti dicono: «Sai com’è, in Germania nelle elezioni vincono quelli che si oppongono al trasferimento di armi all’Ucraina e questo potrebbe portare anche i socialdemocratici del cancelliere Scholtz ad essere più cauti. E poi, ci sta che Israele e Hamas arrivino ad un cessate il fuoco».

Mancava solo che aggiungessero “purtroppo” o “disgraziatamente”. Ma il punto etico-politico è che c’è un settore industriale che prospera, cioè fa guadagni enormi, in relazione direttamente proporzionale alle guerre: più ce n’è, meglio per loro. Questo è noto, anche se non è giusto abituarsi e considerare neutro questo fatto, come se produrre armi o produrre scarpe fosse la stessa cosa. Che non è vero salvo che per una: se io ho una fabbrica che produce solo scarpe di pelle e la domanda per quel prodotto crolla, io sono nei guai perché se devo mettermi a produrre ad esempio borracce in vetro-resina dovrò fare degli enormi investimenti in soldi e tempo per diversificare la produzione, cercare nuovi mercati, promuovere e distribuire il mio nuovo prodotto.

La crescita del “militare” nelle produzioni

Così avviene per Leonardo SpA che, in pochi anni, è passato dall’essere una multinazionale che produceva sia per il settore civile (45% del fatturato) che per quello militare, ad una società sostanzialmente mono-produttiva militare (76-80%): è chiaro che se, malauguratamente per loro ma auspicabilmente per il mondo, scoppiasse la pace o almeno si attenuassero i conflitti, l’azienda sarebbe in grande difficoltà. Banale, se vogliamo, ma una dura realtà, su cui abbiamo richiamato l’attenzione del management della società ogni anno nel nostro azionariato critico.

Ma qui c’è qualcosa in più. Queste aziende sono troppo finanziarizzate. Cioè dipendono molto di più dalla Borsa che dal portafoglio clienti. Nel bene e nel male. Per loro. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina (24 febbraio 2022), è stata una pacchia per le quotazioni di queste aziende. Leonardo ha guadagnato il 206%! E, naturalmente, perdere oggi il 7,2%, vuol dire perdere un valore molto più alto di quanto avrebbe voluto dire perderlo nel 2022.

Lo iato fra economia reale e finanza

In ogni caso che vi sia uno iato incolmabile fra economia reale e finanza lo dimostra un articolo su MilanoFinanza del 3 settembre che, commentando il tonfo in Borsa di Leonardo si meraviglia che sia passata in secondo piano la notizia che (forse) la società si aggiudicherà una grande commessa (1,187 miliardi di euro, da sola il 6% della raccolta di ordini annuale) per la fornitura di 32 nuovi elicotteri alla Royal Air Force e che, nonostante questa notizia, il titolo sia caduto del 7,2%.

Gli analisti, i “sacerdoti del nuovo culto della Finanza globale”, dicono che – a parte il possibile logoramento del sostegno Ue all’Ucraina – «l’impressione è che … gli investitori fossero alla ricerca di un pretesto per vendere titoli che dall’inizio della guerra in Ucraina hanno volato». Detta in altro modo, questi titoli hanno fatto il pieno: non ci sono ulteriori spazi di rivalutazione del settore.

l’impressione è che gli investitori fossero alla ricerca di un pretesto per vendere titoli che dall’inizio della guerra in Ucraina hanno volato.

Rumors di Borsa

E, dunque, che si fa? Se le aziende del settore sono troppo dipendenti dalle Borse e dall’andamento – impazzito – delle relazioni geopolitiche, forse sarebbe saggio diversificare un po’ la produzione. Cioè fare un po’ meno militare e un po’ più civile. Riconvertire le produzioni in qualcosa di un po’ più utile per l’umanità e anche per l’impresa. Magari gli azionisti dovrebbero essere un po’ meno ingordi e mangiarsi la torta un po’ più lentamente perché, traducendo in parole povere quello che dicono gli analisti, hanno fatto indigestione mangiando troppo e troppo in fretta.

L’inganno del confronto con gli Stati Uniti

Tanto, tranquilli si sta imbandendo una nuova mensa: Mario Draghi ha preparato un report di cui ha discusso con la presidente Ursula von der Leyen sul complesso militare-industriale per togliere ogni limitazione all’accesso ai finanziamenti europei all’industria militare. Draghi dice che l’Europa spende appena un terzo di quello che spendono gli Usa per la difesa e che le aziende europee operano in piccoli mercati interni.

A parte il fatto che l’Europa spende di più per la vita delle persone (Welfare, educazione e formazione, ecc.), magari ci sarebbe da tenere di conto che il Pil degli Usa è il maggiore del mondo e non comparabile a quello europeo e che sono la maggiore potenza bellica del mondo (di per sé un mercato molto più grande di quello europeo).

Inoltre si potrebbe riflettere che gli attuali Trattati istitutivi non permettono alla Ue di finanziare la difesa dei Paesi membri.

Si forniscono poi “raccomandazioni” alla Commissione Ue anche in termini di governance per rafforzare il settore. Per esempio costituire un’Autorità per l’industria della difesa gestita dalla Commissione Ue che, per dimostrare plasticamente la propria indipendenza e autorevolezza, sarebbe consigliata «da gruppi settoriali specifici composti da rappresentanti dell’industria e degli Stati membri».

Purtroppo l’industria degli armamenti trova sempre più spazi per allargarsi, anche senza questi importanti sponsor. Infatti, essa ha già conquistato l’accesso ai fondi sostenibili (Esg) , verso i quali è esposta già oggi per 7,7 miliardi (quando lo scorso anno era appena a 3,2 miliardi). Ma non è una buona notizia, perché sono 7,7 miliardi distolti da un’economia migliore per le persone e per il pianeta.

Simone Siliani è direttore della Fondazione finanza etica.

Nella foto di apertura, di Photoexpress/Agenzia Sintesi, una vecchia edizione della Fiera delle armi a Mosca.

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