Idee Lavoro
E se la meritocrazia fosse una grande illusione?
Il legame tra successo educativo e occupazionale nel nostro Paese è ancora pesantemente legato al livello di istruzione di genitori e famiglie. Il problema non è il merito in sé, ma il modo in cui lo abbiamo definito e utilizzato. Va ripensato il successo: non più come accumulo di status o ricchezza, ma come capacità di costruire relazioni significative e promuovere il bene comune
Il 17 luglio 2024 Istat ha pubblicato lo studio “Livelli di istruzione e ritorni occupazionali”, confermando una realtà tanto evidente quanto difficile da accettare: il successo educativo e occupazionale in Italia è ancora pesantemente determinato dal livello di istruzione dei genitori. Se almeno un genitore ha una laurea, il 70% dei figli ottiene un titolo terziario; al contrario, in famiglie dove il livello di istruzione è basso, solo il 7% riesce a laurearsi, e quasi un quarto dei giovani abbandona gli studi prima del diploma. In numeri, queste percentuali non sono semplici dati: sono lo specchio di una società che perpetua disuguaglianze di partenza, camuffandole sotto il falso mito del merito.
Il punto di partenza non è lo stesso per tutti
Se il merito fosse davvero una gara equa, dovremmo garantire a tutti la stessa linea di partenza. Ma i dati dell’Istat ci dicono il contrario: il punto di partenza non è affatto lo stesso. Chi nasce in famiglie con un basso livello di istruzione, con risorse economiche limitate, con una rete relazionale che non aiuta nella carriera scolastica e professionale, incontra barriere che le minoranze iperistruite non vedono e non ammettono, delegittimando e misconoscendo anche i maggiori sforzi di chi non gode di quei privilegi.
Viviamo immersi in un’epoca che ha fatto del merito la sua bandiera, ma il modo in cui questo concetto viene utilizzato ha bisogno di una riflessione più approfondita.
La meritocrazia è un dispositivo che giustifica le disuguaglianze e consolida i privilegi. È il paradosso di un’idea che, nelle intenzioni dei suoi promotori, avrebbe dovuto superare le gerarchie sociali, ma che, nella sua applicazione concreta, tende a riprodurle. Il problema non è il merito in sé, ma il modo in cui lo abbiamo definito e utilizzato.
La meritocrazia oggi è il trionfo dell’individualismo
La meritocrazia, così com’è concepita oggi, non considera le condizioni di partenza, né il contributo sociale che ciascuno può offrire. Misura i risultati individuali in termini di titoli formali, reddito, status o potere, ignorando che il merito è sempre il frutto di una relazione, di un contesto, di una comunità. Il successo, in questa narrazione, non è più una risposta ai bisogni degli altri, ma una corsa solitaria verso obiettivi personali. È il trionfo dell’individualismo. Una società che premia pochi e abbandona molti, per di più giustificando tale approccio aristocratico ed elitario, non può dirsi democratica.
La meritocrazia si basa su un presupposto apparentemente innocuo: che i migliori debbano essere premiati. Ma cosa significa essere i migliori? E, soprattutto, chi decide quali sono i criteri?
Michael Sandel, in The Tyranny of Merit, ci ricorda che il merito non è mai un punto di partenza neutrale: è il risultato di un sistema che avvantaggia chi ha accesso a migliori risorse, educazione e connessioni sociali.
La colpevolizzazione di chi non ce la fa
Il risultato di questa narrazione è una colpevolizzazione implicita di chi non ce la fa. Se il successo dipende dal merito, chi fallisce è automaticamente considerato privo di qualità o di impegno. È una visione crudele, che ignora le complessità della vita e riduce l’esistenza a una competizione spietata. Per cosa poi? Per i propri micragnosi interessi personali.
Dobbiamo ribaltare questa logica. Il merito non può essere una gara individuale; deve diventare una misura del contributo che ciascuno porta alla comunità. Il lavoro, in questa prospettiva, non è solo un mezzo per guadagnare o realizzarsi, ma una forma di partecipazione alla vita collettiva.
È nel lavoro che possiamo esprimere le nostre capacità, ma anche rispondere ai bisogni degli altri e costruire legami significativi. Il punto chiave per costruire una nuova narrazione sul merito, conviene ripeterlo, è partire dalla considerazione del contesto: ogni risultato individuale è il risultato di un sistema di relazioni, della disponibilità di capitale iniziale, anche relazionale.
Il contesto, o anche, se vogliamo utilizzare un concetto di Mike Savage, il peso del passato (The return of inequality, 2021) influenza i risultati possibili e i tempi per raggiungerli. È più facile ottenere titoli formali per chi può rallentare il proprio ingresso nel mercato del lavoro, o sostenere i costi delle metropoli facendo leva su rendite familiari. Un dottorato ottenuto in tempi rapidi è segnale di impegno e talento, ma anche spesso di una famiglia molto presente, di un buon sistema di orientamento, di una traiettoria appoggiata e sostenuta, e di risorse per perseguirla. Chi non ha questi vantaggi potrebbe ottenere altri diversi risultati ugualmente degni di merito. Una posizione di responsabilità per chi si è fermato al diploma, un master professionalizzante o un dottorato ottenuto in età adulta spesso sono significativi di un diverso punto di partenza.
Il valore da misurare in base all’impatto
Il merito può tenere in considerazione anche l’intenzione o gli obiettivi, il servizio verso cui dedichiamo talento e impegno. In tal modo è possibile valorizzare il contributo al bene comune. Il valore di un individuo non si misura solo in base a ciò che guadagna o produce, ma in base all’impatto positivo che genera per gli altri. È meritevole chi contribuisce al bene comune, e per lo più tale contributo si realizza nel lavoro. Riconoscere il merito non significa premiare solo chi raggiunge obiettivi individuali, ma valorizzare chi contribuisce a creare valore collettivo. Questo significa ripensare il successo: non più come accumulo di status o ricchezza, ma come capacità di costruire relazioni significative e promuovere il bene comune. In fin dei conti capacità nel creare senso e valore.
Infine, per evitare che la promozione del merito si trasformi nella distopia descritta da Michael Young ne L’avvento della meritocrazia (1958) in cui il successo individuale è determinato da talenti rigidamente misurabili (in quel caso era il QI), il merito dovrebbe affrancarsi da un approccio così ingenuamente individualista. Il merito potrebbe essere considerato e valutato nei gruppi e non nei singoli, portando i più fortunati e talentuosi e trascinare a migliori risultati tutti gli altri. Immaginiamone l’applicazione nella scuola, con valutazioni aggregate di classe, ma anche nel mondo del lavoro, con importi variabili delle remunerazioni legate ai risultati delle squadre di lavoro, o degli uffici, o degli stabilimenti produttivi intesi nel loro insieme.
Ecco, un merito che consideri il punto di partenza, che ponderi dunque anche i punti di arrivo, ripensato non a partire dall’equazione miope talento più impegno, ma in base alla dedizione del singolo verso gli altri e separato da un approccio individualista per considerare i gruppi e le comunità, può davvero diventare un perno su cui ricostruire il patto sociale.
Il merito così com’è comunemente inteso oggi invece riduce il lavoro a una competizione per il successo individuale. Ma il lavoro è molto di più. È il luogo in cui costruiamo il nostro senso di appartenenza, dove possiamo dare un contributo significativo agli altri. Axel Honneth, in The Struggle for Recognition, ci ricorda che il riconoscimento reciproco è essenziale per il benessere individuale e sociale. Il riconoscimento della propria identità, della propria utilità per la comunità e della legittimità di contribuire alla costruzione di regole comuni è centrale del lavoro.
La meritocrazia diventi pratica di inclusione
Ecco che la meritocrazia può essere intesa non come la giustificazione della competizione, ma una pratica di inclusione. Una meritocrazia trasformativa, basata sull’equità, sulla priorità del principio relazionale e sulla partecipazione democratica nel ripensare gli assunti stessi della nostra convivenza: ripensare il merito è un atto politico.
Significa sfidare una narrazione che ha ridotto il lavoro a una competizione, il successo a ricchezza, popolarità e status e la costruzione delle regole comuni a un privilegio. Dobbiamo costruire una nuova narrazione, che metta al centro l’umanità, la giustizia e il valore delle comunità. Al centro di un ripensamento degli assiomi su cui costruire la società c’è il lavoro, inteso come relazione: uno spazio per costruire legami, creare valore e dare senso alla nostra esistenza collettiva. È tempo di abbandonare la meritocrazia come dispositivo di esclusione e trasformarla in una pratica di riconoscimento, solidarietà e partecipazione. Solo così possiamo immaginare un futuro più giusto e sostenibile.
In apertura photo by Jukan Tateisi on Unsplash
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