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Demofobia e grandi transizioni: perché serve una nuova convergenza politica

La necessità di aprire una stagione che rilanci nuove “convergenze” nella soluzione dei problemi non è un richiamo a un vecchio consociativismo, ma un realismo necessario per affrontare “bisogni comuni” che, per la loro particolare natura, richiedono “azioni comuni”

di Paolo Venturi

Così come l’ennesima estate torrida, la seconda più calda della storia a livello globale, ci ricorda l’importanza di contrastare le cause socio-economiche e comportamentali alla base dei cambiamenti climatici, anche il livello della temperatura del dibattito politico ci segnala la necessità di cambiare spartito per riportare la conversazione entro un perimetro di realismo, uscendo dalla propaganda e contribuendo così a generare felicità pubblica (che include anche l’aumento del Pil, mentre non è vero il contrario).

Manifesti, appelli, ricerche, eventi e pratiche di innovazione sociale sembrano spesso rimbalzare contro un muro di gomma fatto di conversazioni che interessano solo gli addetti ai lavori, fan dei social network ed il cittadino che “vota con il telecomando”. Quel che si può nitidamente osservare è la scarsa disponibilità della politica ad accogliere e valorizzare ciò che emerge dal basso. Un atteggiamento per certi versi autolesionista poiché in un “cambiamento d’epoca”, come questo che stiamo attraversando, percorrere la strada in solitaria non porta lontano. Non si esce da una crisi di senso, o entropica, con un manuale di istruzioni redatto da pochi illuminati, né da una discontinuità storica come quella attuale con una visione che si dichiari “riformista”. Serve invece una concreta prospettiva “trasformativa” che non si limiti a replicare, con nomi diversi, le soluzioni che hanno reso la nostra società più fragile e impaurita (Censis 2024), ma si misuri seriamente con il cambiamento, sfidando il misoneismo. 

Serve invece una concreta prospettiva “trasformativa” che non si limiti a replicare, con nomi diversi, le soluzioni che hanno reso la nostra società più fragile e impaurita

Mentre l’economia ha compreso che la “coesione è competizione” – ovvero, la qualità del legame con il territorio è la chiave per competere globalmente e generare profitti sostenibili – la politica sembra incapace di adottare una visione che consideri il legame come premessa della trasformazione, salvo nelle emergenze. Legare per trasformare. Più che uno slogan è una possibile strada per contrastare la crescente demofobia che sta invadendo sia la politica che la vitalità della società (-30% è il saldo della partecipazione elettorale alle europee negli ultimi 40 anni, mentre l’impegno civico nel 2023 conferma il trend degli ultimi 5 anni: -3% rispetto al 2022).  Manca una tensione e un’azione credibile verso la relazione con “gli altri”, coscienti che tanto l’individuo quanto le istituzioni sono in grado “di essere riconosciute” e “di generare” nella misura in cui sono in “relazione con”. Non una relazione strumentale da attivarsi in campagna elettorale, ma una relazione autenticamente sussidiaria, che renda desiderabile e necessaria la partecipazione della società. Una relazione che si concretizzi nell’allestimento un ambiente fatto di luoghi e istituzioni che, senza chiedere permesso, possano perseguire l’interesse individuale congiuntamente a quello pubblico. 


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Deleterio è infatti l’orizzonte binario (ragione/torto, bene/male, dentro/fuori) che caratterizza il dibattito odierno e che spesso tracima verso la cittadinanza, influenzandone il comportamento e la visione del futuro. Qui non si vuole mettere in discussione l’identità delle diverse anime della politica, quello che va discusso è come questa identità si forma: chiudendosi o riconoscendosi inter-dipendenti (come già accaduto in occasione della fase costituente). La necessità di aprire una stagione che rilanci nuove “convergenze” nella soluzione dei problemi non è un richiamo a un vecchio consociativismo, ma un realismo necessario per affrontare “bisogni comuni” che, per la loro particolare natura, richiedono “azioni comuni” (common action le chiamerebbe E. Ostrom).

Tutte le sfide che abbiamo sul tavolo e che toccano tanto gli anziani, quanto le nuove generazioni, sono dilemmi cooperativi, ossia richiedono di superare le logiche individualistiche

Tutte le sfide che abbiamo sul tavolo e che toccano tanto gli anziani, quanto le nuove generazioni, sono dilemmi cooperativi, ossia richiedono di superare le logiche individualistiche. Per far ciò occorre uscire dalla competizione posizionale che governa la relazione fra i partiti e aprire nuove aree di responsabilità condivisa.

I canteri su cui sperimentare questa convergenza non mancano. Guardando il retro all’arazzo che ci mostra l’immagine dei bisogni del nostro Paese, è facile osservare che i fili che danno forma a quei problemi sono connessi a nodi che, per essere sciolti, richiedono soluzioni trasformative.

Vediamone alcune. Innovare il welfare postula certamente una nuova stagione di investimenti pubblici (la crescita media della spesa sociale pro-capite in Europa è stata del 3,1%, mentre nel nostro Paese la crescita si è fermata al 2,6%) ma questo non basta. Serve una profonda revisione dell’impianto storico del welfare state (il 77% della spesa in protezione sociale va in trasferimenti economici, piuttosto che in servizi) e l’attuazione di una vera co-programmazione con il Terzo settore e ancora troppo lontana. Tutto ciò chiama in causa la co-produzione di un nuovo “contratto sociale”: un contratto in cui tanto il Terzo settore quanto l’economia sociale sono riconosciuti per il loro valore peculiare e integrati dentro un progetto di cura territoriale che consideri la persona nella sua interezza.

Passando ai temi che toccano la necessaria transizione ambientale è evidente come il punto di debolezza non stia sulla mancanza di risorse, ma sulla capacità di coinvolgere attivamente cittadini e imprese in una transizione che li veda protagonisti (come nel caso delle comunità energetiche) e non soggetti contributivi e passivi. Un altro ambito su cui intervenire con urgenza è quello delle politiche per lo sviluppo dei territori vulnerabili. Anche in questo caso la rigenerazione delle aree interne (4mil comuni, 58,4% del territorio) non può passare solo attraverso la creazione di fondi da erogare su progetti troppo spesso burocratici e difficili da rendicontare, ma dall’investimento sussidiario in nuove istituzioni, imprese e reti sociali, culturali ed economiche (la Francia ha destinato 8 miliardi alla creazione di centri multiservizio per i piccoli comuni) utili a ri-urbanizzare in maniera sostenibile il territorio e rendendo così possibile l’abitabilità delle famiglie e dei giovani ( prima che dei turisti). 

Fra pochi mesi ci troveremo di fronte alla Legge di Bilancio che, sulla base dei parametri richiesti dal nuovo patto recentemente firmato con l’UE, comporterà inevitabilmente delle scelte e dei sacrifici (la stima attuale è di una manovra di 20-25 miliardi). La speranza è che in quella scadenza ci sia un Paese coeso e una politica che nella sua legittima diversità, sia in grado di non cadere nella trappola del corto-termismo e del consenso facile. A tal proposito val la pena ricordare che il concetto di con-senso (sentire insieme), troppo spesso è stato ridotto a semplice indice di popolarità certificato dai sondaggi. Le politiche, per tornare a incidere positivamente sulla vita delle persone, devono ri-partire e ri-leggittimarsi attraverso la creazione di un consenso che nasca da conversazioni pubbliche sul merito dei problemi, mettendo in campo argomentazioni che portino evidenze e proposte, aprendosi al pensiero critico. Ralf Dahrendorf scriveva: «La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile. La caratteristica essenziale della società aperta è che le nostre vite si svolgono in “associazioni”, intese in senso lato, che stanno al di fuori della portata dello Stato».

Se la libertà fosse solo libertà di scelta e rappresentanza politica, che bisogno ci sarebbe della società civile? Un mercato ben regolato e una democrazia rappresentativa ordinata basterebbero. Tuttavia, è proprio perché non ci rassegniamo a una versione debole della libertà che dobbiamo sentire l’urgenza di una rinnovata convergenza all’interno della politica e fra questa e la comunità nella sua plurale diversità.

Foto: Wikipedia


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