Idee Ricchi & Poveri
Daniela Santanchè, l’apologeta del capitalismo delle rendite
L'intemerata della ministra del Turismo in Parlamento durante il dibattito sulla mozione di sfiducia rivela la vittoria di un modello economico fondato sul privilegio della rendita, piuttosto che sulla valorizzazione del lavoro

Martedì 25 febbraio la ministra del Turismo Daniela Santanchè si lancia in un’intemerata degna di un’orazione da balcone e ci dà spunto per evidenziare la spaccatura che sembra affliggere la gran parte del mondo che Branko Milanovic chiama “capitalismo liberal-meritocratico”. Capisco bene che a molti ha dato fastidio l’adesione inconsapevole e grottesca ai più triti stereotipi di genere, ma vorrei concentrare l’attenzione invece su questa frase, ormai celebre: “Io sono l’emblema, lo rappresento plasticamente, di tutto ciò che detestate, un preconcetto: voi non volete combattere la povertà, volete combattere la ricchezza”.
Ora, a chi si rivolge la ministra? Alle masse dei lavoratori? Temo che non siano nel suo orizzonte di senso e di comprensione. D’altronde le masse nemmeno sanno chi sia, Santanchè. Si rivolge al Parlamento, anzi, in particolare, all’opposizione, in cui la leader del partito più rappresentativo ha una madre che è stata preside della facoltà di Giurisprudenza; il padre professore emerito di Scienze politiche. Non possiamo certo dire che le Camere siano rifugio di straccioni. Si confrontano nel dibattito politico due forme di ricchezza: quelle che Thomas Piketty chiama “la classe dei bramini”, l’élite intellettuale ed istruita, che nega il proprio privilegio oppure lo vive con pudore, e la “destra mercantile”, che difende posizioni liberiste, deregolamentazione e riduzione delle tasse e non si vergogna a mostrare i segni e i simboli della ricchezza in modo involontariamente buffonesco. Certo, ci sarebbe da riderne, se non fosse che questo confronto evidenzia una spaccatura insanabile tra l’oligarchia e i lavoratori a basso reddito.

La dinamica della concentrazione della ricchezza negli ultimi quarant’anni è stata promossa da fenomeni sociali che ci sono sommati a scelte politiche, causando reazioni a catena i cui effetti stiamo vedendo fin negli eventi a livello globale.
Il tasso di rendita da capitale supera il tasso di crescita dell’economia. Ciò significa che le rendite generano ricchezza in misura maggiore del lavoro
Il tasso di rendita da capitale supera il tasso di crescita dell’economia. Ciò significa che le rendite generano ricchezza in misura maggiore del lavoro. Dato che chi ha capitale ha maggiori possibilità di risparmio e investimento si genera un circolo vizioso per cui la differenza tra i rendimenti è destinata ad aggravarsi. Di fatto è quello che dimostrano le serie storiche.
Diversamente dal capitalismo del XIX secolo (in cui i grassi industriali o proprietari non lavoravano), oggi ai vertici della distribuzione della ricchezza troviamo manager, medici, professionisti, banchieri di investimento, persone dunque che lavorano e percepiscono retribuzioni, che si sommano alle rendite, molto maggiori della media di chi non ha altro reddito che il proprio lavoro. Sappiamo anche che la corsa per tali posizioni è truccata. Non solo il capitale rende più del lavoro, ma anche i lavori più remunerativi li fa chi ha capitale. Le famiglie dotate di capitale economico e relazionale hanno buon gioco a piazzare i rampolli nei posti migliori.
Altra importante caratteristica del nostro modello economico è infatti la trasmissione intergenerazionale della diseguaglianza, consolidata dalla tendenza negli ultimi decenni a eliminare le tasse di successione. Già chi nasce nelle famiglie giuste ha il vantaggio del tessuto sociale e relazionale, oltre che della disponibilità dell’habitus culturale idoneo alle migliori carriere. Abbiamo capito ormai da tempo che nel capitalismo “liberal-meritocratico” il merito è un requisito che dipende dal censo molto più che dalle qualità individuali. La concentrazione è aggravata dall’accoppiamento assortativo per cui sempre più i matrimoni associano coppie omogenee dal punto di vista della ricchezza e del reddito. L’inverno demografico peggiora gli effetti. La disuguaglianza aumenta in modo esponenziale. Due patrimoni relazionali ed economici si sommano e vengono trasferiti ad un solo figlio.
Ancora, la trasformazione delle economie di mercato contemporanee sta premiando modelli di business che possono fare a meno del lavoro, con costi marginali pari a zero e logiche competitive dove “the winner takes all”. È il modello del capitalismo della sorveglianza, descritto da Shoshana Zuboff, in cui le grandi piattaforme digitali basano il loro potere non solo sull’accumulazione di capitale tradizionale, ma su un nuovo tipo di risorsa: i dati personali. Come evidenzia Zuboff, “il capitalismo della sorveglianza unilaterlamente reclama l’esperienza umana come materia prima gratuita da tradurre in dati comportamentali”, trasformandoli in prodotti predittivi destinati al mercato. Questo meccanismo non solo altera la natura del capitalismo, ma genera un’economia in cui il valore è sempre più estratto dalla sorveglianza delle vite quotidiane piuttosto che dal lavoro. Ne derivano dinamiche di concentrazione del potere economico e politico, rafforzate da strategie di fidelizzazione degli utenti, costruzione di dipendenze (dai “mi piace” ai consumi digitali, ma la strategia vale anche per altri comparti, si pensi al farmaceutico e al caso Fentanyl), barriere d’ingresso elevate e l’attrattiva esercitata da certi marchi nel trattenere talenti. Questo sistema esacerba le diseguaglianze, perché il controllo dei flussi informativi e la possibilità di influenzare i comportamenti consolidano il dominio di pochi attori sulle dinamiche economiche e sociali.
La polarizzazione della ricchezza produce uno svuotamento della politica. L’accesso alla rappresentanza richiede ingenti risorse economiche. Le campagne elettorali comportano costi elevati in termini di comunicazione, organizzazione e visibilità: gli individui con maggiori disponibilità economiche sono avvantaggiati nell’accedere a cariche pubbliche. Le élite non solo godono di un vantaggio materiale, ma anche di un accesso privilegiato ai circuiti decisionali. Attraverso think tank, lobby, fondazioni e gruppi di pressione, il capitale economico si traduce in capitale politico, influenzando l’agenda pubblica e la legislazione. Deregolamentazione, barriere alle patrimoniali o alle imposte sulle grandi ricchezze, politiche per la valorizzazione degli immobili nei grandi centri metropolitani, tutele per le rendite immobiliari, aliquote fiscali che premiano le rendite sul lavoro, difese dei monopoli o dei privilegi, contrazione del welfare, svalutazione dell’istruzione pubblica sono gli effetti del fatto che è una sola classe sociale a costruire le regole comuni.
La dichiarazione identitaria della Santanchè dovrebbe preoccuparci perché dimostra la vittoria del capitalismo delle rendite, il sistema che descrive Martin Wolf ne “La crisi del capitalismo democratico”, quando mette in luce come “una parte piuttosto piccola della popolazione estrae rendite dall’economia e impiega le risorse acquisite per controllare il regime politico”. Triste è il Paese in cui il dibattito parlamentare si concentra sull’opportunità o meno di sbandierare la ricchezza. Ancora più triste il Paese in cui tutto il pluralismo tollerato è tra chi il privilegio lo ostenta, e chi invece lo dissimula.
Foto La Presse: la ministra del Turismo Daniela Santanchè
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