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Da “maranza” a “nonnitudine”: il dizionario scritto dai ragazzi

PordenoneLegge ha avuto un’idea intelligente: ha commissionato alle scuole secondarie di primo grado del territorio la stesura di un “piccolo dizionario delle ragazze e dei ragazzi”. Leggiamolo insieme

di Stefano Laffi

L’edizione di quest’anno idi quel festival prezioso che è PordenoneLegge ha avuto un’idea intelligente: ha commissionato alle scuole secondarie di primo grado del territorio la stesura di un “piccolo dizionario (immaginario) delle ragazze e dei ragazzi”. Lo trovate facilmente in rete, è una selezione di lemmi, decisi dalle ragazze e dai ragazzi, riscritti nello stile di un dizionario, ma con qualcosa in più. Ovviamente per le scuole è stato un ottimo alibi per studiare fonetica ed etimologia, rigorosamente riportate, ma per tutti noi è un documento utile per approssimare quella prospettiva sul mondo.


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Io credo che operazioni come queste andrebbero spesso riproposte, perché aiutano a capire che la lingua è cosa viva, che i saperi si rinnovano – anche i dizionari ‘ufficiali’ aggiornano di anno in anno le voci – e che tutti possiamo contribuire alla costruzione della nostra cultura, con un atteggiamento meno passivo dell’apprendimento a memoria dei fondamentali. Immaginate un esercizio come la riscrittura della Costituzione fatto con un gruppi di giovani: si andrebbe subito a sbattere nell’articolo 1, ”l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, quando la disoccupazione giovanile vale tre volte quella adulta, caso unico in Europa.

Immaginate un esercizio come la riscrittura della Costituzione fatto con un gruppi di giovani: si andrebbe subito a sbattere nell’articolo 1, ”l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, quando la disoccupazione giovanile vale tre volte quella adulta, caso unico in Europa

Ma torniamo al piccolo dizionario, alle sue preziose voci. La cosa adorabile è che ogni lemma segue il canone dei dizionari, ovvero documenta la fonetica, l’etimologia, le accezioni di significato, ma queste ultime – dopo aver saldato il debito con i significati più comuni – lasciano spazio alle interpretazioni delle ragazze e dei ragazzi: sono piccolo squarci riflessivi, sintesi di dialoghi avvenute nelle classi, con una prassi di confronto e scrittura collettiva di cui la scuola dovrebbe fare esercizio abituale. Così, nel finale di altalena, si legge: “da piccoli la spinta verso l’alto è fornita dai genitori, che ci danno sempre un aiuto morale  nelle necessità. L’altalena allora ci porta in alto, veloce e senza pensieri, in modo semplice ed immediato. Mano a mano che cresciamo impariamo a spingerci da soli, o con l’aiuto di amici, acquisendo maggiore autonomia, iniziando a respingere il supporto dei genitori, fondamentale nel corso della nostra vita. Desideriamo “giocare” in compagnia e vedere rispettati i nostri spazi e i nostri desideri: toccare il cielo con i piedi librandosi liberi nell’aria fino a raggiungere i nostri sogni”.

Il finale di ogni voce, saldato quel debito informativo, diventa riflessione, poesia, quasi canzone. Una voce che sapevo non sarebbe mancata perché al centro delle loro vite, amicizia, vira quasi in un testo hip hop, un inno ai suoi benefici e alle sue infinite varianti: “si stringe o si rompe, si costruisce o si guasta. Ti calma se è vera, ti fa stare bene se è reciproca, non la cerchi solo tu, Ci vediamo?, Hey, come stai?. Oppure non vi dite niente, eppure vi siete capiti a meraviglia. Vi raccontate una biblioteca di storie e ti sembra che sia passato un secondo, balli in un modo pazzo e sai che lo puoi fare, è brutto tempo ma non importa. Per me è soprattutto un gioco insieme, per te è un mare di messaggi per cercarti, per lui è passare insieme più tempo possibile e immaginabile senza dover indossare una maschera, spesso una sfida.”

Ci sono le parole di oggi, riferite ad oggetti in realtà antichi ricomparsi sulla scena quotidiana per i corsi e ricorsi della storia, come la borraccia ad esempio, che 10 anni fa nessuno avrebbe selezionato fra i termini essenziali per nominare il presente. E ci sono le nuove parole, come i maranza, slang milanese per indicare “una persona prepotente, che sfoggia un abbigliamento appariscente” e sta solitamente in gruppetti. Tutte le epoche hanno avuto i loro maranza, si aggiornano i termini e il kit di elementi distintivi, ma il dizionario ci svela un segreto, nel finale di quella voce: “I maranza ci affascinano perché tra loro formano un gruppo, una comunità, sono molto amici e si proteggono. Ci piace lo stile aggressivo e la voglia di farsi notare. A volte sono sfrontati e violenti, forse perché in realtà vogliono che gli adulti ascoltino quello che hanno da dire, le paure e l’ansia per il futuro; non condividiamo la violenza, ma anche noi sentiamo il bisogno di una comunità dove sentirci uniti.” 

Anche il finale di immaginazione riserva una sorpresa, piacevole: “l’immaginazione è un diritto e dovrebbe essere tutelata: in questo mondo, fatto di immagini luminose, di videogame, di film di animazione, di realtà virtuali e metaverso, è una parola che rischia di estinguersi. Noi ragazzi rivendichiamo degli spazi senza tecnologia dove poter immaginare, dove poter sognare, dove poter essere unici e speciali.” Conoscendo quell’età si resta spiazzati di fronte alla richiesta di “spazi senza tecnologia”, e chissà che non sia un pensiero guidato un po’ dall’insegnante o dal desiderio di aderire allo sguardo degli adulti. Ma anche se fosse così, merita un plauso l’idea di una voce che non fotografa e basta i comportamenti più diffusi ma mostra il film di un cambiamento auspicato, per una consapevolezza forse maturata in quel momento del rischio di omologazione, nascosto nella tecnologia.

A proposito di immaginazione, a me commuove il coming out dell’amore a 13 anni, e il tentativo di farne una ricetta: “L’amore per un’altra persona l’abbiamo sperimentato in pochi; infatti abbracciare, baciare, perdersi in un altro sono azioni che abbiamo solo sognato o visto in un film. Pensiamo che dovrebbero servire 200 grammi di batticuore, 150 grammi di “Se  non ci sei ti penso”, un pizzico di pazzia, una manciata di paure, 50 grammi di fantasia per far capire “Sei importante”, forse qualche messaggino, casino dentro di te q.b. Ce lo immaginiamo”.

Le parole si rincorrono, e quel diritto all’immaginazione si esercita nel descrivere l’ignoto dell’amore. E con la creatività se ne inventano di nuove. Alla voce nonno la mia generazione avrebbe riportato “nonnismo”, che allora evocava soprattutto la sopraffazione dei più vecchi verso le matricole nel corso del servizio militare, obbligatorio. Oggi la leva non è più obbligatoria e quella parola ha forse come equivalente il bullismo a scuola, che però non scelgono fra le parole utili per nominare il presente, così come non c’è traccia dei temi al centro dei laboratori e dei progetti di cui le scuole sono invase, come legalità, cyberbullismo, droghe, ecc. L’essenziale della vita e l’essenziale della lingua sono altro, e il finale di nonno è un’affettuosa lezione agli adulti su come ci guardano, su come ci vedono: “ci piace pensare alla parola derivata “nonnitudine” come a un legame che si instaura fra nonno e nipote, in cui il primo sembra spesso fra le nuvole, ci ripete più e più volte le stesse cose e fa tutto con molta lentezza. I nonni sono poi veri “antenati”, una specie di bussola per tutta la famiglia: sfilano in una galleria di volti a cui ognuno di  noi guarda e su cui basa le proprie scelte.”

Foto: Pexels


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