Idee Politiche europee

Con la Casa di Ursula, prove di Social Deal

La prossima Commissione europea avrà anche un commissario all'Housing sociale e accessibile. Una buona idea con alcuni deficit ancora strutturali: ecco cosa manca

di Filippo Addarii

Per la prima volta nella storia dell’Unione la Commissione Europea avrà un Commissario dedicato alla casa (“social and affordable housing”). Questo è l’impegno che ha preso Ursula von der Leyen per il programma della prossima Commissione europea (2024 – 29) giustificandolo con la semplicità dello statista consumato. Sintetizzo la sua dichiarazione: «Se i prezzi delle case e degli affitti diventano inaffrontabili per i citadini dell’Unione, questo diventa un problema dell’Europa».

Gli analisti più maliziosi vorrebbero fraintendere l’impegno della presidente appena riconfermata dal Parlamento europeo (18 luglio 2024) come una semplice manovra politica per guadagnarsi i voti dei socialisti. Il beneficio politico è incontrovertibile. Aveva bisogno di quei voti per essere confermata, ma il valore di questa scelta politica è molto più significativo.

La ragioni di Von der Layen

Partiamo dai fatti. Von der Leyen ha ragione a preocupparsi. Secondo le stime della Commissione, dal 2010 i prezzi delle case sono aumentati del 46% e gli affitti del 21% superando di gran lunga l’aumento di salari e inflazione. I primi a pagarne le spese sono  dipendenti, pensionati, i giovani lavoratori e tutte le categorie più vulnerabili che giustamente esprimono il proprio malessere votandosi a chi promette di fare giustizia anche mandando alla malora l’assetto istituzionale. Rabbia gistificata, ma soluzione inefficace.

Perciò la Commissione cambia le regole del gioco e si attribuisce una resposabilità, quella della casa, che travalica il mandato sancito dai trattati europei e che, storicamente, è sempre stato di competenza degli Stati membri. I governi sovranisti faranno le solite scenate di facciata, ma la sostanza non cambierà. D’altra parte il mercato immobiliare è sempre più soggetto alle forze dei mercati internazionali: le grandi città come Milano ne sono una dimostrazione lampante. Solo i regolamenti europei hanno la forza di imbrigliare la potenza dei capitali. Da qui la necessità di un intervento a livello europeo, esattamente come già avvenuto con la sanità e la finanza sostenibile.

Scelta coerente

La scelta è coerente con l’evoluzione del ruolo dell’Unione legittimata a intervenire non solo in caso di crisi, ma anche a guidare i trend globali con programmi d’investimento che spostino l’ago della bilancia sui mercati. Sono politiche chiaramente keynesiane.

Il piano Juncker per il rilancio degli investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture  ha inaugurato il trend mobilitando mezzo triliardo nel 2014 – 21. A questo hanno fatto seguito InvestEu (oltre 300 miliardi), così come il Pnrr, più di recente, il Social Climate Fund (86 miliardi). Tutti questi programmi includono investimenti nelle cosidette infrastrutture sociali: si tratta dell’immobiliare a finalità sociale, così come nel caso dell’ospedale di Treviso che chi scrive ha seguito in prima persona nel lontano 2016. Un caso di studio in Commissione su investimenti in infrastrutture sociali (nostante lo scetticismo di alcuni dei nostrani accademici impolveriti).

Il trend è il frutto di una lunga gestazione che ha riposizionato gli investimenti nel sociale come parte integrate delle politiche europee per lo sviluppo industriale, la digitalizzazione e la transizione climatica. Il piano per l’innovazione sociale ha aperto la strada nel 2010, poi ripreso dal  Commissario Barnier, che ne ha fatto un cavallo di battaglia con l’iniziativa per Social Business nel 2011. Il fatto più importante è l’emergere di una nuova categoria di investimenti infrastrutturali definita “infrastrutture sociali”, ovvero investimenti immobiliari che uniscono la solidità degli investimenti infrastrutturali a una esplicita funzione sociale di cui il pubblico è garante più o meno espicitamente. Si tratta d’investimenti nell’ormai celebre affordable housing (abitazioni a costi accessibili, ndr), come per la sanità, l’educazione, la formazione, i servizi alla persona, la cultura e lo sport.

Non è solo un fatto di coesione e giustizia sociali ma, parafrasando l’economista premio nobel Amartya Sen, si tratta di costruire le “capabilities” della società ovvero il capitale umano assieme alle condizioni per valorizzarlo traducendolo in una crescita economica sana e sostenibile.

Ma il mattone sociale non basta

Naturalmente non è sufficente investire in complessi immobiliari con una funzione sociale, altrimenti non sarebbe altro che la riproposta di programmi si sviluppo edilizio di stampo socialista e popolare che hanno caretizzato la ripresa nel secondo dopoguerra. Sono stati ampiamente utilizzati anche delle economie emergenti negli ultimi due decenni. In altre parole, non si tratta di finanziare la costruzione di nuovi ospedali, scuole e edilizia popolare come piacerebbe a quei politici con poca immaginazione e disperatamente alla ricerca del consenso popolare. Tutto il contrario: gli investimenti devono avvenire nelle nuove soluzioni per l’empowerment. Le persone hanno bisogno di case, ma non delle villette di proprietà. La casa è innazitutto piattaforma per l’upgrading di salute, educazione, formazione, assistenza e digitalizazione. Serve aumentare il tasso di scolarità e formazione. Bene, ma non costruendo più edifici scolastici e campus universitari, bensì  sviluppando la formazione a distanza, integrando il digitale con la classe. Non più ospedali e case di riposo ma un sistema sanitario leggere e diffuso sul territorio. Il Covid ha dimostrato infatti l’inadeguatezza dell’infrastruttura sociale esistente.

Ursula Von der Layen, commissario Ue al suo secondo mandato

Fra finanza internazionale e Cdp

La finanza ci dà indicazione del potenziale d’investimento. Mentre la spesa nazionale ha subito contrazioni a causa dei forti livelli di indebitamento pubblico, crescono invece gli investimenti complessivi. Gli investimenti di InvestEU in infrastrutture sociali sono stati quasi 6 miliardi negli ultimi due  anni. La Banche europea degli investimenti (Bei) è leader ma anche l’Italia si difende, a cominciare dai 2 miliardi per l’housing sociale di Cassa depositi e prestiti Cdp che ha appena lanciato il Fondo Investimenti per l’Abitare – Fia, con una dotazione di 100 milioni di euro messa a disposizione da Cassa Depositi e Prestiti e garantita al 50% dall’Unione Europea.

E il for profit

Anche il privato acquisisce sempre più importanza. L’ultimo rapporto dell’associazione degli investitori di lungo periodo, che ha sede a Parigi, stima a un totale di 80 miliardi il valore totale degli investimenti di banche e fondi nelle infrastruture sociali in Europa. D’altra parte ancora più significativo la domanda d’investimenti. Il fabbisogno stimato si assesta intorno ai 140 miliardi all’anno, per un valore totale di circa un triliardo e mezzo entro il 2030. Sono tre volte le Juncker Plan al quale si devono aggiungere l’effetto combinato degli investimenti nella digitalizzazione e nella transizione climatica.

Bruxelles oltre i proclami

Da questa prima veloce rassegna si possono tratte una prima serie di conclusioni. Gli investimenti nelle infrastrutture sociali diventano, a pieno titolo, parte della strategia di sviluppo (industriale) dell’Europa con uno spostamento su Bruxelles della cabina di regia e un’apertura sempre più rilevante ai mercati dei capitali. Dall’altra, se le funzioni sociali sono riconosciute per importanza strategica, le tipologie d’investimento cambiano smaterializzando gli investimenti immobiliari. Siamo pronti al cambiamento epocale? Non mi sembra. La Commissione fa proclami altisonanti, ma non vedo piano d’attacco, mezzi blindati e truppe d’assalto. Le istituzioni nazionali sono ferme ai piani degli anni ‘50 – l’Italia del Pnrr ne è una dimostrazione! – e gli investitori privati vorrebbero finanziare soltanto l’immobiliare che dà rendite sicure e a breve termine, come studentati e case di riposo.

Investitori di impatto cercasi.
E un nuovo William Beveridge

Neanche a dirlo non si vede traccia di investitori d’impatto e il Terzo settore segue il solco della tradizione. Soltanto una maniciata di imprenditori e innovatori si azzarda ad esplorare il futuro del sociale, ma sempre con troppi pochi mezzi e a una scala insufficente rispetto alla sfide del futuro. Le piattaforme digitali e imprenditori scaltri sono tra i pochi che si sono dimostrati capaci di intercettare il trend e di dare una risposta adeguata anche se il sociale non è una vocazione ma un’altra opportunità di guadagno.

Mancano i nuovi modelli, strumenti e sorpattutto una visione per un nuovo contratto sociale. A qualcuno spetta scrivere il nuovo Rapporto Beveridge. Della nuova versione non ne ho ancora trovato una copia disponibile. Non possiamo continuare a leggere quella del ’42 e sperare che il sistema faccia l’aggioramento in automatico.

La foto in apertura è di pawel-czerwinski-unsplash.


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