Idee Tecnologie

Come diventare più intelligenti dell’intelligenza artificiale

Servono voci capaci di farci uscire da quella condizione della cultura occidentale di questi ultimi decenni, per la quale siamo super esperti dell'infinitamente piccolo e ignari della cornice di riferimento che dà senso al particolare di cui sappiamo tutto

di Antonio Palmieri

«Paradossalmente la centralità delle macchine rimetterà al centro l’uomo, chiamato ad immaginare un futuro in cui le macchine e il progresso siano al servizio della felicità della persona, delle sue relazioni, della sua libertà.  Da troppo tempo la maggioranza dell’umanità vive come criceti in una ruota senza affrontare i grandi temi esistenziali. La ruota per molti di noi sta per scomparire e ci ritroveremo a chiederci che senso abbia la nostra esistenza».  Questa citazione tratta dalla riflessione di Stefano Simontacchi, presidente dello studio Bonelli Erede e della fondazione Ospedale dei bambini Buzzi, pubblicata il 19 giugno sul Corriere della Sera spiega in modo chiaro e inequivocabile l’approccio più idoneo per affrontare l’impatto dell’intelligenza artificiale generativa e conversazionale sulla vita di ciascuno di noi e sull’intera società.

Intendiamoci. È più che legittimo che ciascuno di noi si possa sentire “piccolo” rispetto ai continui e straordinari cambiamenti in atto, ai colossali interessi (interesse non è una parolaccia, sia chiaro, o almeno non lo è sempre) in gioco, alla forza degli attori protagonisti in campo, alle capacità che mostrano gli algoritmi e i programmi di intelligenza artificiale generativa e conversazionale.

Non a caso, secondo l’indagine Youtrend/Fondazione Pensiero Solido presentata il 19 maggio, per il 59% degli italiani la politica dovrebbe intervenire con leggi utili a regolamentare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, percentuale che sale al 64% per gli over 55. 

Una richiesta che conferma uno stato di preoccupazione e alla quale il Parlamento europeo ha dato una prima risposta licenziando settimane fa il testo del regolamento sull’intelligenza artificiale. Un testo complesso, ambizioso, che ha come è scontato ricevuto critiche e plausi e il cui iter di approvazione e di entrata in vigore sarà ancora lungo, perché si concluderà solo negli anni a venire. 

Senza dubbio regole capaci di impedire gli abusi e insieme favorire lo sviluppo e il buon uso della tecnologia saranno le benvenute. Nel frattempo, però, che si fa? La certezza è che proprio dalle straordinarie possibilità che la tecnologia offre, deve nascere la consapevolezza che questa nostra epoca esige un di più di responsabilità. 

Non è un richiamo astratto alla necessità di essere buoni. È una sfida a diventare più “intelligenti”, cioè capaci di trovare soluzioni tecniche adeguate sapendo che l’innovazione non è un fine ma uno strumento per migliorare la nostra vita. Quindi non tutto ciò che è tecnicamente fattibile è eticamente e umanamente accettabile. Questa considerazione è ovviamente in primo luogo rivolta a coloro che scrivono software di intelligenza artificiale e a coloro che li finanziano. Perché questo avvenga, devono levarsi voci capaci di farci uscire da quella condizione della cultura occidentale di questi ultimi decenni, per la quale siamo super esperti dell’infinitamente piccolo e ignari della cornice di riferimento che dà senso al particolare di cui sappiamo tutto. Servono filosofi per il digitale, cioè donne e uomini capaci di illuminare l’agire dei tecnici. 

Serve anche comprendere che non siamo condannati a un destino di pura passività. Noi abbiamo dalla nostra parte il fatto che ogni strumento tecnologico ha bisogno di noi, di ciascuno di noi, per funzionare e che nessun algoritmo può obbligarci a usare questi strumenti in modo non rispettoso di noi stessi e degli altri.

In secondo luogo, la citazione di Simontacchi ci richiama a riprendere in mano le grandi domande sul nostro destino personale e di comunità, che in questi ultimi decenni il mainstream culturale ha giudicato inutili e superflue, con la conseguenza di crescere generazioni di produttori/consumatori incapaci di gettare lo sguardo oltre la siepe del proprio particolare. 


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La riscossa può ripartire da coloro i quali hanno messo al riparo il seme, come il Gesù di Guareschi dice a don Camillo, da coloro i quali nel Terzo settore, ma anche nell’impresa tradizionale, nelle associazioni, nella scuola, e, udite udite, perfino nella politica, hanno salvato il seme delle grandi domande di senso e della risposta che genera opere e riflessioni capaci di ridare nuova speranza e di essere esempio per tutti, a partire dai più giovani. 

Non bisogna più vergognarsi di essere dei “custodi del seme”, non bisogna farsi turbare dalle notizie e dalle profezie di sventura, ma cercare fonti di comunicazione costruttiva, capaci di generare coesione, di illuminare prospettive, di indicare sentieri praticabili. Sarà l’oggetto di questa rubrica nei mesi a venire. 

Credit foto: Possessed Photography su Unsplash

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