Idee Umanitario

Come comunicare la cooperazione internazionale nell’era Trump

«L’aiuto pubblico allo sviluppo ha perso il 20 gennaio scorso il primo finanziatore globale, difficilmente rimpiazzabile», scrive Maria Laura Conte, direttrice della comunicazione strategica e advocacy per Fondazione Avsi. «E mentre si prova a misurare l’impatto effettivo di questa decisione nel medio e lungo periodo, ora siamo davanti a una guerra di narrazioni»

di Maria Laura Conte

“Dopo una revisione di 6 settimane, stiamo ufficialmente cancellando l’83% dei programmi a Usaid. I 5.200 contratti, che sono stati cancellati ora, hanno speso decine di miliardi di dollari in modi chenon sono serviti (e in certi casi hanno anche fatto danno) agli interessi degli Stati Uniti”: Marco Rubio, il Segretario di Stato degli Usa, il 10 marzo scorso su X ha pubblicato questa dichiarazione dal tono clamorosamente soddisfatto: celebrandolo, comunicava un grande risultato finalmente portato a casa, stoppare progetti di sviluppo e di emergenza, già contrattualizzati, da un giorno all’altro. 

Un post breve, denso di messaggi sottesi: si rivolge al tax payer (un tax payer = un voto), rassicurandolo perché finalmente i soldi delle sue tasse sono salvaguardati. In duecento caratteri concentra la narrazione negativa, non nata ieri, secondo la quale sarebbe andata sprecata – per decenni – la stragrande maggioranza di quei miliardi usati nel campo della cooperazione internazionale da organizzazioni della società civile, agenzie Onu, realtà varie che, in contesti diversi, hanno lavorato su obiettivi come la lotta alla fame e alla povertà, la promozione della salute per tutti, la tutela dei diritti, della democrazia, della libertà di espressione.

Ma l’implicazione reale di quel tweet è drammatica: milioni di persone nel mondo non ricevono e non riceveranno più aiuti già promessi, in troppi pagheranno con la vita la sospensione della distribuzione dei farmaci antiretrovirali (per citare solo uno dei mille esempi possibili). L’aiuto pubblico allo sviluppo ha perso il 20 gennaio scorso il primo finanziatore globale, difficilmente rimpiazzabile, e mentre si prova a misurare l’impatto effettivo di questa decisione nel medio e lungo periodo, tra tagli, sospensioni, riavvii di porzioni di progetti, cause legali, è guerra di narrazioni.

Da una parte quella dura, fiera: finalmente si è posto fine al circo umanitario, all’ipocrisia di un sistema che si autoalimentava senza riuscire veramente a cambiare la vita delle persone, anzi perpetuando dipendenza e processi di assistenzialismo o corruzione. Mescolando ideologia e menzogne a qualche fatto accaduto, questa narrazione sta iniettando dosi massicce di veleno nelle vene delle relazioni internazionali, che sarà difficile smaltire.

Dall’altra comunicazioni varie in ordine sparso. Storditi per il terribile colpo incassato, i soggetti della cooperazione si rendono conto che non sanno parlare la lingua del tax payer di Rubio, e che il consueto storytelling sentimentale, basato sulla ricerca di storie commoventi di beneficiari di progetti riusciti, non esce dalla bolla abitata da persone che non hanno bisogno di essere convinte, perché lo sanno già, che aiutare i vulnerabili è il minimo della solidarietà per chi appartiene allo stesso genere umano, lo sanno già che o ci si salva tutti o nessuno, lo sanno già che essere migrante, rifugiato, malato, povero, affamato non è una colpa, né un destino perpetuo.

E quindi si va un po’ tutti alla ricerca di oracoli e di una nuova narrazione, quasi come alla ricerca dell’isola del tesoro. Ci si mette in strada per reinventing a narrative (come si legge nei siti Usa, reinventare una modalità di raccontare il nostro lavoro), espressione che torna ciclicamente, sicuramente dagli anni ’10, nelle piattaforme di settore. 

Nel 2014 uscì una ricerca dal titolo The narrative project, curata dall’agenzia Weber Shandwick su commissione di importanti organizzazioni internazionali, interessate a trovare parole nuove per raccontare il futuro della cooperazione e dello sviluppo globale, per contrastare il declino del supporto dell’opinione pubblica rispetto a temi come la lotto alla povertà (undici anni fa, con l’attuale Trump ancora lontano). Si avvalse della collaborazione di linguisti, ricercatori, politici, opinion leader che insieme individuarono le parole da evitare e quelle da rilanciare, tra cui autonomia, partnership, valori condivisi, progresso, per il loro potenziale espressivo. Empowerment, si leggeva, doveva rimpiazzare la lotta alla povertà, che infastidisce lo scettico. 

L’anno dopo, nel 2015, Infocooperazione riprende questa ricerca e si interroga su come contenere il fatto che i media tendano a enfatizzare ciò che non funziona e ciò che viene sprecato rispetto a tutto il positivo, e come raccontare il cambiamento a un pubblico con un numero crescente di indecisi. Il pezzo di Infocooperazione si chiude con una serie di comandamenti tra i quali: non usare la parola “aiuto”, non utilizzare il pietismo, non minimizzare il problema della corruzione, non comunicare spazi temporali troppo lunghi, non giustificare la cooperazione con problemi di sicurezza nazionale e contrasto all’immigrazione. L’impressione è che siamo ancora a quel punto, se non peggio: si cercano parole salvifiche, che non attirino gli strali di chi esamina i progetti e potrebbe ritenerli espressione dell’ideologia nemica Woke. Il rewording, rinominare, è il mantra di queste settimane nei corridoi di settore: non usare climate change, piuttosto parla di inquinamento; non menzionare diversità o equità o inclusione, che ti fanno chiudere i progetti… I fautori del rewording lo spiegano così: chiamiamo con parole diverse (gradite al pensiero dominante) quello che si faceva anche prima, è una mera questione di copertura verbale, cambiare l’involucro per salvare la sostanza. Sembra una scelta astuta, invece ha i confini del ricatto.

Come se le parole non fossero fatti, come se le parole non avessero un potere creativo. Trattare le parole come meri involucri significa inguaiarsi. Certamente occorre usarle con cautela, ma non può essere la pura tecnica o il marketing narrativo a metterci al sicuro. 

C’è un livello più profondo: urge stare aderenti alla realtà del nostro lavoro, stare ai fatti: alla solidità degli approcci usati, alle evidenze e i numeri che emergono, all’impatto di un certo metodo, ai risultati misurati e valutati intrecciati alle storie autentiche di chi li ha visti e vissuti. Solo la dura verità della realtà può rispondere alla melma di narrazioni menzognere e velenose. 

Per questo ci serve uno storytelling onesto, liberato da stereotipi (che siano buonisti o neocolonialisti) e complessi persecutori e sensi di colpa, che faccia spazio alle vicende raccontate dagli stessi protagonisti, non ritagliate per forza dentro gli schemi dei donatori, ma valorizzate per quello che sono in tutte le loro componenti, anche le criticità o gli aspetti non funzionanti.

Chi implementa progetti per dare riparo a rifugiati, per accompagnare migranti, per riportare a scuola bambini di strada o per nutrire persone affamate, non può stare sotto il ricatto dell’opinione pro e contro, perché maneggia esperienze reali concrete, non astrazioni. Da questo capitale narrativo occorre sempre ripartire, ogni volta che si avverte il bisogno di reinventare narrazioni, dal conoscerlo, dall’averne consapevolezza e compromettersi con esso. 

Urge reimmergersi ancora di più nella realtà per estrarne l’essenziale e dirlo, semplicemente dirlo. Le parole giuste, poi, vengono da sole.

Credit foto LaPresse

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