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Tempi moderni

Ci siamo persi il futuro (anche quello semplice)

La recente rarefazione dell’uso del tempo futuro mi sembra il suo complementare, parte dello stesso fenomeno: il dilagare del qui ed ora. Ho la netta sensazione che questo imperativo del presente sia nato non dalla filosofia di vita buddista come ogni tanto si crede, ma dall’ideologia del mercato degli anni ‘80, cioè dalla compulsione al consumo che chiede di festeggiare ogni istante come fosse l’ultimo, godendo del presente, ovvero comprando cose

di Stefano Laffi

Chi dice più “domani andrò al cinema”? Nell’uso comune tempi e modi verbali si sono ridotti, per tutti, è evidente. La scuola rimpiange anche giustamente modi di cui si sta perdendo la capacità, congiuntivi e condizionali in primis, ma è forse l’uso dei tempi che è più specchio dei tempi. Per cui si dirà e si sentirà dire “domani vado al cinema”, il più delle volte, perché qualcosa è successo, nel recente passato.

Il passato remoto ce l’eravamo già giocato tempo fa, nella lingua parlata, se senti dire “quella sera andai al cinema” ti sembra una dichiarazione giurata, la testimonianza di un alibi ad un processo in cui la verbalizzazione chiede la precisione su tutto, tempi compresi. Se è “remoto” è troppo distante, “sono andato al cinema” va meglio, fa sentire meno la vertigine del tempo, ci fa sentire meno vecchi. Poi, se possibile – e se è vero che succedeva così – preferisco dire “andavo al cinema”, cioè facevo questo e quell’altro, pronunciato come raccontassi un rituale, magari pure con un velo di nostalgia se l’azione si è estinta. Ma l’imperfetto è più dolce, il passato remoto è netto, duro, istantaneo, non consente di tirare i fili nemmeno emotivi fino all’oggi, l’azione è morta e sepolta, costringe a fare i conti con la vita che passa.

Il presente annebbia il discernimento: “che bello, mi piace, lo prendo” è una sequenza che non setaccia il già posseduto o le reali funzioni d’uso, ma fa credere indispensabile l’inutile, o bella la moda del momento. In una parola, fa sparire la morte

La recente rarefazione dell’uso del tempo futuro mi sembra il suo complementare, parte dello stesso fenomeno: il dilagare del qui ed ora. Ho la netta sensazione che questo imperativo del presente sia nato non dalla filosofia di vita buddista come ogni tanto si crede, ma dall’ideologia del mercato degli anni ‘80, cioè dalla compulsione al consumo che chiede di festeggiare ogni istante come fosse l’ultimo, godendo del presente, ovvero comprando cose. Se c’è un passato rischio di ricordarmi di averne già prese di simili, magari senza averle poi utilizzate, se c’è un futuro scatta un principio ecologico intorno al “cosa mi servirà davvero”, mentre è solo il presente che annebbia il discernimento: “che bello, mi piace, lo prendo” è una sequenza che non setaccia il già posseduto o le reali funzioni d’uso, ma fa credere indispensabile l’inutile, o bella la moda del momento. In una parola, fa sparire la morte. 

Ma la scomparsa del futuro ha oggi altre radici culturali, perché in realtà l’ideologia del mercato ha bisogno del futuro, solo che lo dà per scontato, cioè implicitamente predica l’eternità – non si vorrebbe essere sempre giovani? non si cerca di esserlo? – dice di non preoccuparsene e procedere nei consumi senza fare troppi bilanci esistenziali da fine del mondo. “Domani vado al cinema” è un tentativo di colonizzazione temporale, non spaziale, su un tempo che ci sta sfuggendo di mano, perché il futuro semplice non è semplice per niente. Non c’è dubbio che questa sia l’epoca dell’incertezza, dello scacco alla presunzione prometeica di poter ipotecare il tempo, predeterminarlo. Le nostre routine di lavoro sono piene di schemi in cui programmiamo le cose e descriviamo i risultati attesi, i nostri viaggi sono definiti da prenotazioni fatte con mesi di anticipo, i nostri studi scandiscono mesi e titoli conseguiti anno dopo anno. Poi arriva la crisi del 2009, la Brexit, la pandemia, la guerra, l’alluvione, la crisi climatica, … e tutta la nostra programmazione salta.


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Durante il lockdown era esaurito il lievito dai supermercati perché in tanti si erano messi a fare pane, biscotti, torte, pizze in casa. Perché sapevano che in quelle tre ore le cose succedevano esattamente come avevano programmato, l’impasto lievitava, la torta cuoceva, i biscotti erano buoni come previsto: mentre fuori imperava il caos della pandemia, in casa riprendevano il controllo delle loro vite, piccoli rituali a blocchi di poche ore alla volta restituivano la sensazione di avere potere sulla propria esistenza. 

Se dico “domani andrò al cinema” rimando ancora a quel senso di incertezza, perché il tempo futuro evoca intenzione, possibilità, speranza, ma anche precarietà e minacce, insomma non regala certezze, ora più che mai. Se dico “domani vado al cinema” faccio finta che non ci sia una distanza temporale fra l’ora e quel momento, tutto ha un tono declamatorio, non si lascia prendere dal dubbio, è il seguito naturale di quel che sto facendo adesso, come in un elenco in cui nessuno mette in dubbio quel che viene dopo, c’è e basta. In questo giorno continuo che da oggi prosegue ininterrotto di fatto aboliamo anche la notte, e i suoi cattivi pensieri, fuori controllo perché preda dell’inconscio. 

Spia di un tentativo di cacciare i fantasmi di oggi, quelli dell’incertezza e della minaccia su cosa può succederci, la rinuncia al futuro semplice è però anche pratica terapeutica, strategia immaginativa. Prendete una faccenda per voi scomoda, o qualcosa che desiderate, e provate a descriverla, come vorreste la cosa, ma non al condizionale o al futuro, bensì al presente indicativo, nel dettaglio e con la solidità del presente indicativo, come fosse lì, davanti ai vostri occhi. Vi sembrerà lì. Anzi, è lì.

Nell’immagine di apertura, il maestro romano Alberto Manzi, docente, pedagogista e scrittore. Condusse tra il 1960 e il 1968 la trasmissione Rai “Non è mai troppo tardi” . foto: pubblico dominio


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