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Che senso ha andare a scuola?

Nessun paradosso: è questa la domanda da farsi. E bisogna farsela perché la risposta non è scontata nel tempo del boom dell'autodidattismo e dell'utilizzo "educativo" di internet e social media

di Stefano Laffi

Prendiamola sul serio la domanda, non facciamo finta di chiedercelo per poi rassicurarci, in difesa dell’Istituzione. E precisiamo: «Che senso ha andare a scuola?» e non «che senso ha studiare?», perché è troppo facile rispondere a questo interrogativo. In fondo il tabù l’ha rotto la scuola stessa, quando durante il lockdown ha detto agli studenti di restare a casa e ha provato a offrire se stessa “senza andare a scuola”. Non si scherza con gli incantesimi, quando si rompono è difficile ripristinare la scena, lo sa bene l’università che oggi deve imporre la presenza, come la scuola: quando un anno fa era finita l’emergenza e si era liberi di frequentare i corsi non ci andava più nessuno, i professori avevano 3 studenti in aula e 50 on line. D’altra parte l’università si era già “suicidata”, formattando ogni lezione in diapositive powerpoint o in pillole video, non a caso sotto l’emergenza la conversione alla didattica on line per l’accademia è stata molto semplice. Ahimè.

La prova l’abbiamo fatta, senza obbligo le nostre istituzioni di istruzioni rischiano di svuotarsi. D’altra parte da anni cresce l’istruzione parentale, cioè sono i genitori stessi a credere che della scuola si possa fare a meno, perché ci si può organizzare in casa avendo tempo e spazi per farlo, da soli o con altri. E se qualcuno non crede a priori a quella possibilità, consiglio “Non sono mai andato a scuola. Storia di un’infanzia felice”, cioè la biografia di André Stern, leggendo la quale è molto facile provare invidia. 

L’autodidattismo ha vinto perché il web ha vantaggi che la scuola non offre: poter scegliere solo quel che ti interessa e ti serve, poter selezionare il livello di difficoltà per te adeguato

— Stefano Laffi

In realtà la scuola ha sconfinato da un pezzo: negli anni 60 il maestro Manzi usò la televisione per alfabetizzare gli italiani, io ho studiato tedesco con la radio e le audiocassette, prima si usavano i dischi e oggi si usano le app e i film in originale, “Coursera” ti permetta di acquisire on line migliaia di titoli di studio universitari, il sito di “Giallozafferano” è una scuola di cucina di massa, quello di Aranzulla è il supermercato delle soluzioni ai problemi informatici, i podcast di Alessandro Barbero sono la lezione di storia che tutti avremmo voluto.

Insomma, fino a qualche anno fa abbiamo pensato il web come la più grande biblioteca del mondo, ma oggi sarebbe più corretto pensarlo come la più grande scuola del mondo: le nuove generazioni che ne hanno plasmato l’uso non volevano leggere ma qualcuno che leggesse loro e spiegasse le cose, non istruzioni per l’uso ma tutorial, cioè lezioni. L’autodidattismo ha vinto perché il web ha vantaggi che la scuola non offre: poter scegliere solo quel che ti interessa e ti serve, poter selezionare il livello di difficoltà per te adeguato, poter risentire quel che non capisci, poter regolare la velocità sulla tua rapidità di comprensione, poter seguire quando hai tempo, quando fai altro o quando devi fare esattamente quel che ti viene spiegato. È avere un insegnante tutto per te, che standoti vicino ti mostra passo a passo come cucinare un risotto, riparare la bicicletta o sviluppare i tricipiti.

«Non c’è niente che abbia senso… perciò non vale la pena fare niente… è tutto una recita…» dice Pierre Anthon, che a 13 anni si alza dal suo banco di scuola, lascia tutti ammutoliti e si rifugia su un albero. Così inizia “Niente” di Janne Teller, un romanzo che fece scalpore, perché era la denuncia dell’assurdo delle nostre vite da parte di un preadolescente, a partire dallo stare a scuola, e il tentativo disperato dei suoi compagni e delle sue compagne di trovarci comunque un senso. Mi ha ricordato una delle critiche più crudeli che ho sentito fare alla scuola, da parte di un liceale, «La scuola? È il reality degli insegnanti, ci credono solo loro”. Non so quanto sia realmente diffusa questa idea ma la scuola italiana è fra quelle in Europa che perde più studenti, e che riesce meno nella sua missione donmilaniana, perché in nessun altro Paese europeo la disuguaglianza socio-economica dei genitori si trasmette così pesantemente ai figli. 

Mi ha sempre colpito il rito dell’appello, «vediamo chi c’è e cominciamo». In una partita di qualunque sport non si gioca se non ci sono tutti, una squadra fa i salti mortali per recuperare qualcuno che si è fatto male, ti fa capire che tu fai la differenza e che senza di te non c’è partita. Invece la scuola procede imperterrita, lavora coi presenti, e non cambia nulla della lezione che tu ci sia o sia assente, tocca a te recuperare non a lei recuperarti. Non sarà allora che chi fa fatica comincia a chiedersi perché andarci, visto che non c’è nessuno ad aspettarti?

Il web è pieno di lezioni frontali, fatte benissimo, ma non può fare laboratori con te. Fornisce risposte su qualunque cose ma non ti fa domande e non ti ascolta. Ci trovi tutto ma non ancora il tuo racconto, le tue idee, la tua voce. Ti può anche insegnare a muovere il tuo corpo ma non ti può correggere i movimenti, non vede se sbagli. Risponde a domande di ricerca ma non può improvvisare, disobbedire o mettere in crisi quelle domande. Soddisfa tutte le curiosità ma non ti regala la risposta di senso che cercava Pierre Anthon. Sembra quasi dialogare con te, conosce le tue preferenze ma non può venire a cercarti, farti capire che senza di te non si gioca. Laboratori, dialoghi, corpi, cura: a settembre ripensiamo a una scuola fatta così?

Foto: archivio vita/unsplash


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