Idee Politica

Autonomia differenziata: al Terzo settore non basta dire “no”

C'è bisogno di elaborare una sua strategia che non può non prevedere un programma di ristrutturazione di uno dei suoi più preziosi asset: le reti. Un percorso di change management che si dovrebbe sviluppare su due fronti: coprogrammazione/coprogettazione e allargamento dei network a soggetti diversi

di Flaviano Zandonai

Nel dibattito, sempre più teso, sull’autonomia differenziata anche il Terzo settore meridionale vuol dire la sua. Ed è un giudizio fortemente negativo, come emerso da un seminario inserito nel programma di Fqts, la storica formazione quadri del Terzo settore realizzata da Forum nazionale e CSVnet sostenuta da Fondazione con il Sud che si è tenuta a Cosenza.

Era da tempo che non si notava un’unità d’intenti su un tema non strettamente legato a questioni interne, come ad esempio quelle legate alla riforma del Terzo settore. I toni e il comune sentire dei partecipanti non lasciano dubbi rispetto alla scelta di campo, anche se sarà interessante vedere quanto verrà fatta propria a livello nazionale, a iniziare dai Forum e dai centri servizio per il volontariato del centro e nord Italia, oltre che da altre reti di settore.

Certo, come veniva evidenziato in alcuni interventi, è necessario non farsi schiacciare dall’inevitabile polarizzazione che caratterizzerà ancor di più i mesi successivi, guardando in particolare al referendum confermativo della proposta di riforma. Chissà se oltre alle schermaglie partitiche ci sarà la possibilità di costruire un’alleanza di scopo che coalizzi diversi attori della società civile, ad esempio la chiesa cattolica che si è già espressa chiaramente, e negativamente, rispetto al progetto di autonomia differenziata.

Il no alla riforma lascerebbe infatti aperti temi rilevanti. Ad esempio i divari territoriali tra sud e nord che il regime regionale “ordinario” degli ultimi decenni non ha risolto, anzi aggravato. E il fatto che il Terzo settore per funzionare al meglio ha comunque bisogno di una dimensione locale capace di cogliere le specificità di territori e comunità, attraverso partenariati con altri attori “local” pubblici e privati. Forse il problema latente, emerso solo in parte dal dibattito, consiste in una progressiva disarticolazione della sussidiarietà, ma non di quella orizzontale – che tutto sommato pur con tutti i limiti sembra ancora funzionare. La sussidiarietà che non ingrana più – e non a causa del provvedimento approvato dall’attuale governo ma di altri promossi da esecutivi anche di colore diverso – è quella verticale. Un’integrazione tra livelli locale, meso e macro che è stata sempre delegata allo Stato e alle sue articolazioni (regioni, province, comuni e loro svariate aggregazioni), ma che il nuovo assetto normativo oltre, va detto, a inefficienze strutturali, ha reso sempre meno praticabile.

Se il Terzo settore vuole quindi giocare questa complessa partita, oltre a schierarsi sull’autonomia differenziata ha bisogno di elaborare una sua strategia che non può non prevedere un programma di ristrutturazione di uno dei suoi più preziosi asset: le reti. Un percorso di change management che si dovrebbe sviluppare su due fronti. Il primo consiste nello sfidare la PA rispetto all’amministrazione condivisa, alzando la posta rispetto agli oggetti su cui fare coprogrammazione e coprogettazione evitando il rischio che il tutto si risolva in un “abbellimento” dello status quo. Il secondo ha a che fare con la capacità di essere inclusivo rispetto a soggetti non di Terzo settore, affinché ai tavoli dell’amministrazione condivisa siedano non solo gli addetti ai lavori ma più ampie espressioni del territorio in grado di meglio rappresentare e perseguire ciò che è di interesse generale. Se dunque nella visione dei contrari, la riforma Calderoli non farebbe altro che accelerare il processo di disaggregazione del Paese, non solo nella sua unità nazionale ma di comunità territoriale, è parimenti necessario elaborare una controproposta che rafforzi la capacità d’azione della società civile anche oltre quel livello locale che da sempre è il contesto di riferimento.

Foto: la Casa delle Stelle, una delle comunità di Domus de Luna a Cagliari

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