Idee Ambiente
Attenzione a non trasformare la “transizione ecologica” in un disco rotto
Il dibattito da troppo tempo si è bloccato sul nodo dei consumi "sostenibili". Occorre invece andare oltre e mettere in discussione il rapporto fra l'uomo e l'infinito mondo del "non umano"
Il caldo ti si appiccica addosso, e le parole stentano a prendere corpo: boccheggiamo, e non emettiamo suoni.
In questa sensazione di spossamento, dove difficile è costruire un pensiero, rimaniamo inebetiti da quanti invece emettono sentenze nello scagliarsi contro i fanatismi ecologici – ma questi riescono vedere il futuro, o rimangono sempre intrappolati nel mito dell’uomo? Ecco, dobbiamo fermarci, ed immaginare un nuovo cammino, nuovi passi in questo transire ecologico che sia veramente un processo di costruzione di nuova relazione con la natura.
Da tempo la questione della transizione ecologica è bloccata, e come un disco rotto ripete all’infinito solo parole relative ai consumi, perché si esca da un approccio estrattivo: la questione è assolutamente cruciale, come ben sappiamo, ma ha il limite di trattenerci in una posizione di controllo del processo, senza aprire ad un necessario nuovo dialogo con quell’infinito mondo del non umano con cui siamo entrati in conflitto: è ora che ci si prenda le responsabilità di andare oltre, di uscire da questa bipolarità e provare a stabilire nuovi linguaggi; è un tempo calmo che ci dobbiamo prendere per co-educarci ad una mutual symbiosis con il non umano, come dice l’artista Claudia Losi, per ritrovare codici di lettura e di relazione.
Su questo da vari anni, abbiamo già ricevuto sollecitazioni varie, che hanno sradicato quel sistema otto/novecentesco di lettura della realtà, per immaginare nuovi ecosistemi, che andassero oltre il grande divario cultura/natura che si era incardinato: basti vedere le nuove riletture del nostro tempo attraverso lenti biologiche, dal “Chthulucene” di Donna Harraway, ai “funghi” di Anna Tsing, alle “metamorfosi” di Emanuele Coccia, ma anche alla “biopolitica” di Roberto Esposito, e molte altre.
E di nuovo, ascoltiamo la denuncia di uno scrittore come Amitav Ghosh che, ne “La grande cecità” lamenta un’incapacità del mondo letterario di trovare parole per nominare quanto stia accadendo: “uncanny/sconcertanti” è ancora il termine con cui definiamo i cataclismi che ci stanno colpendo, a sottolineare un nostro immobilismo e sbigottimento, incapaci di ricercare nuovi vocabolari. Siamo vittime di un cinismo della politica che ci costringe a poche parole di consumo, mentre la speranza, dice Ghosh, è quella di una nuova generazione in grado di uscire da questo isolamento attraverso nuovi approcci culturali.
Da questo dobbiamo ripartire: metterci, in particolare per coloro che hanno a cuore un nuovo senso di benessere, ai limiti del umano/non umano e interrogarci su come stabilire nuove parole.
Uno dei motivi della “restanza” nei paesi per i più giovani, ancor prima di dare continuità ad un’attività di famiglia, oppure l’interesse personale e la preferenza per uno stile di vita semplice è il desiderio di contatto con gli animali e la natura
Emmanuele Curti
Lo possiamo fare in città, nello scoprire come riportare natura nell’ormai superata città industriale, ma forse lo possiamo fare ancora meglio facendoci aiutare da coloro che proprio quei margini vivono, nella aree interne del nostro paese (e del mondo).
In una recente pubblicazione (“Voglia di restare”, Donzelli editori – un volume dedicato alla presenza giovanile nelle aree interne), mi ha colpito un elemento della loro ricerca: uno dei motivi della “restanza” nei paesi per i più giovani, ancor prima di dare continuità ad un’attività di famiglia, oppure l’interesse personale e la preferenza per uno stile di vita semplice, a prevalere è il desiderio di contatto con gli animali e la natura. Per ovvie ragioni i nostri paesi sono sempre stati luoghi di confine con il mondo naturale, con il quale hanno anche avuto chiaramente un rapporto di sfruttamento (spesso anche difficile e doloroso), ma proprio per questa loro permanenza, hanno sviluppato nei secoli un dna di relazione, di riconoscimento, di capacità di lettura del mondo naturale.
Ecco, forse dovremmo capovolgere l’altezzosità delle città, abituate sempre ad imporre parole (in particolare nella politica), e chiedere aiuto ai paesi, per avviare un processo generativo: dovremmo restare lì, per imparare a porre domande, a costruire “attraversanze”, a riportare in città (e nei vocabolari normativi che lì ancora si compongono) i termini di una nuova relazione. Ed educarci a partire dalle nuove generazioni molto più attente alle questioni ambientali e, per riprendere le riflessioni di Federico Mento e Stefano Laffi, andare verso una scuola capace di essere in transizione alla ricerca di un nuovo benessere anche ecologico.
Per essere con la natura, per riscrivere un rapporto di coesistenza, e andare oltre lo sfruttamento.
Foto: Alluvione in Nord Corlina nel 2020 di Jo-Anne McArthur per Unplash
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