Mondo

Ibrahim amico mio

di Giulio Albanese

La grande bufera delle ingiustizie che imperversa nel Sud del mondo, qua e là manifestandosi con guerre, guerriglie, esodi, eccidi sopraffazioni, miseria e quant’altro, ha innescato il fenomeno delle migrazioni, una realtà che ha portato numerosi uomini e donne delle cosiddette periferie del mondo di fronte all’uscio delle nostre case. Ed ecco che allora l’Africa paradossalmente è diventata vicina di più di quanto potessimo pensare. Ed è proprio a Roma, la mia città natale, che ho incontrato Ibrahim, un egiziano copto che vive dal 1993 nel nostro Paese. Originario di un villaggio alla periferia del Cairo, fin da giovanissimo si rimboccò le maniche facendo un po’ di tutto. Trovò anche il tempo per studiare, sebbene poi preferì mollare, “giocandosi a tombola – racconta – quei quattro soldi risparmiati con tanto sudore e tentare così la via dell’esilio”. Nonostante avesse studiato ingegneria era praticamente senza lavoro dal giorno della laurea. Con quel pezzo di carta, sudato a caro prezzo, riusciva a combinare ben poco all’ombra delle piramidi.

È stata l’amara legge della sopravvivenza a spingerlo a lasciare l’Egitto. Sebbene nell’immaginario nostrano il Sud del Mondo sia socialmente povero e quindi emarginato, conoscendo Ibrahim, ho davvero compreso quanto la sua presenza in Italia sia provvidenziale per chi crede nei valori del Vangelo: primo fra tutti la carità in quanto convivialità delle differenze. Sì, perché le differenze non sono come vorrebbe qualcuno una sciagura, quanto piuttosto una grazia di Dio. Le nostre città, piccole o grandi che siano, pullulano di personaggi come lui. Qualcuno li ha definiti “sentinelle della carità”, altri “vu cumprà”, “intrusi”, “sfaccendati”, “nullatenenti”. Ma al di là di ogni congettura, forse non abbiamo capito in Italia che Ibrahim non voleva accontentarsi delle briciole di noi ricchi Epuloni. La sua è fame, fame di chi chiede d’essere considerato non per quello che non ha, bensì per ciò che il suo essere rappresenta. Di fronte abbiamo un uomo, forestiero e itinerante, ma pur sempre uomo: Figlio di Dio con la stessa dignità di chi, per destino o provvidenza, è nato o vive a Poggibonsi o a Gallarate, ai Parioli o al Prenestino. Insomma, per quanto possa essere guastafeste, Ibrahim ci vuole bene. È vero, tante volte anche lui ha avuto le sue debolezze. Ma chi di noi al suo posto non si sarebbe sentito un verme, giudicato, incompreso, emarginato per non essere stato capace di uscire dalla morsa della povertà? Ecco perché la sua amicizia, per un missionario e giornalista come il sottoscritto, è stata un’occasione per mettermi alla sua scuola, per imparare qualcosa che a noi occidentali manca… e che lui invece possiede. Sono certo – ed è il cuore a dirlo – che sono proprio questi poveri, tanto ricchi di valori a noi sconosciuti, che possono con la loro presenza dare una svolta al perbenismo di una società mercificata come la nostra.

Lungi da ogni retorica, sono sempre più convinto che in tempi di crisi è necessario coltivare un approccio globale ai problemi che assillano l’Italia e l’amicizia con Ibrahim mi ha davvero aperto gli occhi. Ogni anno, infatti, decine di migliaia di immigrati qualificati come lui entrano in Italia per poi dedicarsi a mansioni ben lontane dal loro profilo educativo e professionale. Ecco che allora vi sono laureati in fisica che fanno i portieri, specialisti in materie tecniche impiegati come badanti; insomma un vero e proprio esercito di competenze che alimentano un fenomeno internazionalmente noto come “brain waste”, spreco di cervelli. Secondo i dati riportati dallo European Migration Network (2010) il 54,1% degli stranieri è in possesso di diploma o laurea, ma circa i tre quarti (73,4%) svolgono una professione operaia o non qualificata. La conoscenza di questo capitale umano in Italia è quasi nulla, soffocata com’è dalla preoccupazione che i nostri giovani connazionali sono essi stessi costretti a fare le valigie, alla ricerca di prospettive di guadagno e soddisfazione professionale. Numerose ricerche realizzate in questi anni hanno dimostrato che “mobilità umana” e “creatività” sono sinergiche. In altre parole, la condizione del migrante stimola il pensiero innovativo molto di più che nel caso dei nativi. Questo, in sostanza, significa che i paesi di accoglienza dovrebbero valorizzare il patrimonio intellettuale straniero ricercando in esso delle risposte che la propria “intelligentia” non è in grado di offrire. L’orizzonte è quello di una governance globale su cui da anni il settore della cooperazione allo svilupppo sta lavorando come indicato dal recente Dossier Statistico 2011 sull’Immigrazione della Caritas-Migrantes. L’approccio attuale invece si basa prevalentemente sul contenimento dei flussi, con visioni di corto respiro e talvolta di miope politica. Sta di fatto che l’immigrato laureato in Italia, per potere risalire nella scala sociale, è di solito costretto a farlo lentamente e faticosamente, fino a potersi collocare di nuovo, ammesso che abbia successo, in una posizione che soddisfi le proprie aspirazioni. Gli Stati Uniti, da questo punto di vista, hanno una lunga tradizione che ha fatto dell’immigrazione intellettuale una vera e propria strategia a lungo termine. Nelle università degli States i migliori studenti provengono dall’Oriente e sono destinati a costituire la nuova crema intellettual-scientifica d’America. L’immigrazione di talenti è dunque una priorità con il rilascio di visti speciali per neo-imprenditori e laureati in medicina, tecnologia, ingegneria e matematica. Se da una parte è vero che la sottrazione dei cervelli dai Paesi in via di sviluppo (Pvs) genera effetti depressivi, la sfida, guardando al futuro, consiste nel credere che questa, se debitamente governata, possa avere un impatto positivo sulle economie locali, stimolando circoli virtuosi di sviluppo sia nelle comunità di origine che in quelle di accoglienza. È l’ipotesi del brain gain, del guadagno, degli effetti positivi che si basa sulla brain circulation, sulla possibilità cioè di poter valorizzare le competenze dei migranti sia nei Paesi di accoglienza che nei Paesi di origine (Pvs), iniziando, ad esempio, dai progetti di cooperazione allo sviluppo e dalle molteplici opportunità imprenditoriali e di scambi commerciali capaci di rafforzare le relazioni bilaterali a reciproco interesse.

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