Volontariato
I volontari che insegnano l’italiano a 10 mila stranieri
Il rapporto della Rete Scuole Migranti del Lazio sarà presentato il 27 febbraio a Roma. Rispondono alle esigenze più diverse e hanno allievi da 147 Paesi del mondo. Ma il loro impegno non basta: per questo si rivolgono ai Cpia e al sistema pubblico di istruzione
Nel 2018, con i decreti Salvini, il Governo ha deciso di non investire più nell’integrazione dei migranti, ma la società civile – laica e cattolica – resiste. Potremmo definire una forma di resistenza civile, ad esempio, quella della Caritas di Milano che, attraverso il Fondo di solidarietà per gli esclusi dall’accoglienza, ha continuato a seguire i migranti con permesso di soggiorno per ragioni umanitarie che erano in carico alle strutture gestite dalle cooperative sociali, ma che a causa di quei decreti avrebbero dovuto lasciare i centri. A distanza di un anno, più della metà è riuscita a raggiungere l’autonomia.
Tra le tante altre diffuse nel Paese, è una forma di resistenza civile diffusa anche quella delle associazioni e dei volontari collegati alla Rete Scuole Migranti del Lazio, sostenuta dal Csv regionale: 92 enti e 130 sedi che offrono gratuitamente corsi e laboratori per insegnare l’italiano agli stranieri, registrando più di 10 mila iscritti complessivi.
I dati della rete – raccolti da Creifos (Centro di ricerca sull’educazione interculturale e la formazione allo sviluppo dell’Università Roma Tre) ed elaborati da Luca Proietti dell’Iref (Istituto di ricerche educative e formative) avrebbero dovuto essere presentati in occasione del convegno A scuola anch’io. Migranti adulti e apprendimento della lingua, in programma il 27 febbraio a Roma, ma che è stato rinviato a data da destinarsi.
Dal rapporto emergono alcuni elementi interessanti. Ad esempio, il fatto che la rete, nel suo insieme, rappresenta un modello capillare e flessibile che sul territorio riesce ad intercettare esigenze diverse: c’è chi è appena arrivato; chi è arrivato da tempo, ma ha bisogno di migliorare la conoscenza della lingua; chi è ancora irregolare; chi ha alle spalle un percorso scolastico di alto livello (il 15%); chi è analfabeta o ha un livello di istruzione che non supera i quattro anni (10%). Anche l’eterogeneità etnica e culturale è vasta, visto che si tratta di persone provenienti da 147 Paesi (anche se la maggioranza arriva dal Bangladesh e dal Perù).
Per i migranti in generale frequentare regolarmente i corsi è faticoso, a causa del lavoro precario e con orari pesanti, dei cambi di abitazione, dell’orizzonte incerto e anche della sfiducia in sé stessi. Eppure la motivazione è forte e con essa l’impegno: i migranti vogliono imparare l’italiano. Per questo le associazioni e gli enti della Rete inventano metodi pedagogici e strategie sociali mirati: orari diversificati, corsi per sole donne, metodologie di apprendimento attentamente messe a punto.
Nel convegno vengono presentate alcune di queste esperienze a Roma: a Trastevere la scuola fondata da Sant’Egidio (3.200 allievi all’anno); a via Giolitti un’altra grande scuola, gestita dalla Casa dei Diritti Sociali (1.500 allievi); al Quadraro la scuola Penny Wirton, che offre una scrivania e un docente per ogni allievo; a Torpignattara l’esperienza di Asinitas e del Centro Miguelin, gestito dalle donne del Bangladesh, dove si impara la lingua e molto altro.
Ma la disponibilità, la creatività, le competenze del volontariato e degli enti non profit non bastano. Diecimila studenti sono tanti, ma probabilmente non sono tutti. Serve un maggior impegno dei CPIA (Centri per l’istruzione degli adulti) che, ad esempio, non hanno risposte da offrire a chi è analfabeta. Una maggiore disponibilità delle scuole, che a volte rimandano all’anno successivo l’iscrizione dei bambini che arrivano a metà anno scolastico, facendo perdere tempo prezioso. Un sistema di riconoscimento delle competenze per chi ha titoli di studio alti, ma non riconosciuti in Italia. E c’è la necessità di mettere a punto percorsi di formazione breve, per quei migranti che non possono permettersi di investire tre anni nelle scuole professionali.
Insomma, ancora una volta è la società civile che risponde a problemi urgenti e che apre percorsi di integrazione e dialogo interculturale altrimenti impossibili, contribuendo a fare dell’immigrazione, più che un problema, una risorsa per il nostro Paese. Ma non può essere lasciata sola, con un sistema pubblico dell’istruzione non sufficientemente attrezzato e una volontà politica latitante – nel migliore dei casi – su questi temi.
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