Formazione

I volontari 10 anni dopo,meno apparati e più libertà

Editoriale di Riccardo Bonacina

di Riccardo Bonacina

Esattamente dieci anni fa, allorché l’11 agosto 1991 il Parlamento licenziò all’unanimità, e con un applauso proveniente “da ogni settore dell’emiciclo” (come ricorda Rosa Russo Jervolino nell’intervista in questo numero), la legge n. 266 che riconosceva “il valore sociale del volontariato”, si iniziò un percorso che ha profondamente a che fare con le trasformazioni in atto in questo Paese. Con un atto legislativo del Parlamento, si riconobbe che era entrato in crisi un modello di Stato che di fatto aveva incorporato qualsiasi funzione sociale, persino la responsabilità dei suoi cittadini e delle loro libere aggregazioni. E contestualmente si riconosceva che un nuovo Stato sociale sarebbe stato immaginabile soltanto tornando a guardare con interesse a quella capacità autonoma delle famiglie e dei soggetti del privato sociale, e persino degli individui, di appropriarsi di responsabilità e funzioni pubbliche, che a loro erano sempre appartenute ma che erano state occupate dall’estendersi dello Stato e della sua burocrazia per troppi decenni, con enormi sprechi del denaro di tutti. Iniziò allora un processo di trasformazione dello Stato e della società italiana che è ancora ben lontano dall’essersi concluso. Ma a ben vedere, quella spinta di un nuovo protagonismo sociale che prendeva man mano corpo e forma fuori dai luoghi tradizionalie deputati, ha a che fare con i due nodi gordiani della trasformazione in corso nel nostro Paese: la riforma dello Stato sociale e la crisi dei modelli di partecipazione sociale e politica con il contestuale affacciarsi di nuove forme e di nuove pratiche di partecipazione alla vita collettiva. Insomma, ricordare oggi quella legge significa anche finalmente capire e sottolineare come il fenomeno del volontariato e il diffondersi di una nuova coscienza di responsabilità sociale che gli individui e le aggregazioni della società civile si sono voluti riprendere, sia qualcosa che non c’entra nulla con la marginalità cui una certa cultura e una certa politica continua a relegarli, anzi, come suggeriscono gli osservatori più acuti, sono uno dei motori primi e insostituibili di un vero cambiamento. Dopo dieci anni il valore sociale del volontariato, le opere che da esso si sono generate, la responsabilità sociale come nuova coscienza in grado di informare persino il management aziendale e finanziario, sono dati acquisiti per l’intero Paese, sebbene si possa e si debba fare ancora molto di più per valorizzare il protagonismo sociale che dieci anni fa appena si affacciava. Proprio pochi giorni fa, finalmente, l’Istat ha reso noto i dati di una ricerca sul settore non profit e ne è emerso quello che da tempo su questo settimanale sosteniamo: la realtà delle persone che perseguono in questo Paese fini di solidarietà e di responsabilità sociale e la trama delle loro organizzazioni ed opere sono ormai un vero e proprio sistema, un settore (il Terzo settore) con una propria coscienza, delle proprie rappresentanze, dei propri canali di comunicazione e di confronto, e si tratta di una rete ancora destinata a crescere e ad influenzare, grazie ad un nuovo sapere sociale, alla pratica di comportamenti nuovi e più equi, grazie anche a nuove forme di elaborazione culturale, altri settori ed altri mondi della società e dell’economia. Marco Revelli definì questo nuovo modo di fare e di agire come «la capacità di stare nelle cose e nella realtà senza trasformarsi in esse. (…) Una forma che si realizza nei comportamenti e non attraverso la mediazione di apparati. Un modello di alterità da vivere e non da edificare».
Ecco, per i volontari italiani la nuova sfida, tanto più oggi dopo i dolorosi eventi di Genova, si colloca qui. Il popolo dei “senza fine di lucro”, riuscirà a cogliere tutte le opportunità di una possibile crescita e persino di una possibile invasione di campi altrui, senza esagerare nel dotarsi di apparati di mediazione e di rappresentanza che inevitabilmente riporterebbero ad una tragica confusione: la confusione della pratica della solidarietà con il mestiere, e spesso con la mistica, del potere?

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