Ieri sono stato intervistato da un giornalista del Corriere Economia. Abbiamo sprecato tre quarti del tempo per chiarire i dati sull’impresa sociale. Desolante lo stato dei database (al netto delle mia scarsa capacità di spiegazione). La parte rimanente del colloquio l’abbiamo dedicata ai percorsi di accesso e di carriera nelle imprese sociali, saggiando in particolare la tenuta delle “passerelle” tra imprese profit e sociali. Non me la sono sentita di approfondire profili, skills, ecc. Non sono abbastanza bravo. L’ho buttata sulle motivazioni estrinseche e, su questa base, sulla necessità di strutturare meglio il mercato del lavoro dell’imprenditoria sociale. Mi sembra un tema urgente, molto più rilevante degli esercizi di stile sul mercato dei capitali (di cui si parla anche troppo considerando lo stato del settore – e della finanza). E’ infatti in crisi il principale strumento che fino ad oggi ha intermediato domanda e offerta di lavoro (soprattutto ai livelli top e middle management): la formazione. Nonostante un interesse crescente, sia da parte delle imprese che offrono lavoro sia delle persone che lo ricercano, i setting formativi sono sempre meno luoghi dove si fa (anche) macthing. Magari non è il contesto giusto e quindi servirebbero servizi all’impiego ad hoc che però faticano a decollare. E poi rimane sguarnito il fronte della consulenza alle organizzazioni di impresa sociale (mentoring, coaching, ecc.) affinché si rimuovano tutti quegli ostacoli che limitano le possibilità di accedere a un importante bacino esterno di competenze e disponibilità. E’ solo in parte una questione da mansionario: profili, ruoli, funzioni, retribuzioni, ecc. Prima occorre lavorare sul gioco delle rappresentazioni reciproche che, quasi come un sistema di veti incrociati, sclerotizza il mercato del lavoro in versioni stereotipate degli attori in campo. Tento di spiegarmi meglio. Gli psicologi sociali ci dicono che le rappresentazioni di un qualsiasi fenomeno sono traditrici: agevolano i processi cognitivi (e le conseguenze a livello comportamentale), ma con il rischio di semplificarli eccessivamente. Meglio far fare dei periodici bagni di realtà alle nostre rappresentazioni, metterle alla prova, smontarle e rimontarle. Un esempio divertente. Qualche tempo fa guardavo con orrore alle foto del sito di make a change, una nuova iniziativa per far incontrare profit e non intorno a progetti di business sociale (à la Yunus per capirci). Un senza fissa dimora incontra un manager (o presunto tale) e socializza in vista di un aiuto, interesse o attività comune. Che bieco schematismo! Poi però, mettendoci un pò di ironia che è un ottimo toccasana contro il contagio da rappresentazioni stereotipate, mi sono detto che forse il senza fissa dimora è in realtà un ex finanziere caduto in disgrazia per colpa della crisi (tipo Madoff o qualcuno di simile) che viene aiutato da un imprenditore sociale rampante di ultima generazione… Chissà!
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