Cooperazione internazionale

I vertici Onu per l’ambiente servono davvero?

Della Cop29 a Baku, terminata da poco, si è parlato per l’incapacità degli Stati di raggiungere un accordo all’altezza della sfida climatica. Le conferenze su biodiversità e desertificazione, invece, non hanno avuto quasi nessuno spazio sui media. A cosa servono questi grandi appuntamenti i, se non riescono a essere risolutivi? VITA ne ha parlato con il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni, segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo

di Elisa Cozzarini

ARiyadh, in Arabia Saudita, si è appena conclusa la Cop16 sulla desertificazione, intitolata quest’anno Our Land. Our Future, “La nostra terra. Il nostro futuro”. Secondo uno studio appena pubblicato dalle Nazioni Unite, è arido il 40% delle terre emerse, esclusa l’Antartide, e, a causa del processo di desertificazione, l’Africa ha perso circa il 12% del Pil, tra il 1990 e il 2015. Poco si conosce di questo problema così grave e il vertice Onu sul tema passa sotto silenzio. Molto di più si è parlato della Cop29 sul clima di Baku (dall’11 al 22 novembre), dai risultati deludenti. Prima ancora, dal 21 ottobre al 1° novembre, i negoziati di Cali sulla biodiversità si sono conclusi quasi con un nulla di fatto. Abbiamo parlato del significato delle Cop con il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni, segretario generale aggiunto dell’Unione per il Mediterraneo, che ha partecipato a molte conferenze delle parti e, quest’anno, era a Baku. Mastrojeni è autore di diversi libri, tra cui Effetti farfalla. 5 scelte di felicità per salvare il pianeta ed Effetto serra, effetto guerra, per Chiarelettere.

Grammenos Mastrojeni, questi grandi appuntamenti internazionali sembrano portare risultati sempre più deludenti, non all’altezza delle sfide ambientali globali. Come mai?

Bisogna considerare che alle Cop – ce ne sono molte, clima e biodiversità sono solo quelle più conosciute – i negoziatori non sono soggetti indipendenti, ma rispondono ai governi, che, a loro volta, devono dare conto agli elettori. Qui sta il problema: ce lo hanno spiegato in modo molto efficace i gilets jaunes, i “gilet gialli”, che alcuni anni fa manifestavano in Francia contro l’introduzione di una tassa sul carburante, dicendo: «Mentre le elite parlano della fine del mondo, noi pensiamo alla fine del mese». Questo schema, molto diffuso, per cui la scelta sarebbe tra stare bene oggi o pensare al domani, una sorta di trade off tra presente e futuro, non funziona. Un’economia sostenibile non implica sacrificio, significa innovazione, e reddito. Lo sanno persino le compagnie petrolifere, che, certo, continuano a trarre ricchezza dal fossile, ma stanno anche differenziando. Eppure è difficile superare la visione per cui, in nome del pianeta, dovremmo rinunciare a qualcosa.

Il diplomatico Grammenos Mastrojeni

Come dovrebbe cambiare la politica?

Bisognerebbe riuscire a fare capire che, per esempio, investendo nella biodiversità o nella fertilità del suolo, il ritorno, anche economico, è maggiore e più duraturo che lasciare gli habitat al degrado. Parliamo dei servizi ecosistemici, cioè i benefici che gli elementi naturali forniscono a noi esseri umani, quando sono in buono stato ecologico. Ma un politico che assume impegni importanti nel segno della sostenibilità, poi deve fare fronte alle critiche di un populismo semplicista, diffuso e aggressivo. Ecco la difficoltà delle Cop.

Quindi i vertici dell’Onu non bastano, se i cittadini non sono coinvolti e informati?

Le Cop non possono fornire soluzioni miracolose, sono spazi in cui si coordinano le scelte degli Stati. L’economia reale, quella che coinvolge le persone sui territori, ha un ruolo molto più risolutivo: è ciò che mette in moto il cambiamento. Clima, biodiversità, degrado dei suoli sono sfide globali ed erroneamente si pensa che se ne debbano occupare solo i “grandi”. Per affrontarle in modo incisivo, invece, devono cambiare i comportamenti delle persone. Penso in particolare a figure chiave, come quelle degli imprenditori, o degli insegnanti, il cui operato influenza anche altri. Ecco, credo che i limiti delle Cop si possano superare solo con una maggiore consapevolezza dei cittadini ed elettori. Dunque, va bene accusare i governi che non sono stati capaci di fare accordi abbastanza ambiziosi alle Cop, ma non basta.

Quest’anno la Cina ha partecipato alla Cop sul clima con una delle delegazioni più numerose: che segnale è?

È lo Stato che emette più gas serra al mondo, ma da tempo la Cina ha scelto la strada della sostenibilità. Non lo fa solo investendo sulle rinnovabili, ma anche in grandi progetti di rigenerazione del suolo, come nel deserto Kubuqi in Mongolia. Altri Paesi stanno puntando sulla biodiversità, perché si sono accorti che conviene. In Rwanda, ad esempio, per fare un safari e vedere i gorilla si pagano 1.500 dollari: i Parchi nazionali sono macchine da soldi. La stessa agricoltura italiana si salva grazie alle eccellenze e alle particolarità, come quelle valorizzate da Slow food. Inoltre, i mercati si stanno spostando su investimenti che tutelano il clima e la natura, più solidi e durevoli. La finanza non opera solo con un orizzonte di pochi anni, guarda anche ai risultati a lungo termine.

Negli anni più recenti, con le manifestazioni per il clima trascinate dai Fridays for future di Greta Thunberg, l’impressione è che il contesto per le Cop fosse più propizio…

Non sono d’accordo con questa interpretazione. L’anno scorso la Cop28 sul clima si è tenuta per la prima volta in un Paese produttore di petrolio, gli Emirati arabi uniti, e il presidente Sultan al-Jaber ha dichiarato che senza il fossile si torna alle caverne. Si può comprendere, per uno Stato che fino a pochi anni fa basava la sua economia su un’agricoltura di sussistenza, poverissima, ma è una percezione errata. Ci sono da sempre alle Cop fortissime resistenze al cambiamento e si ripete il discorso sul trade off tra presente e futuro di cui parlavo prima. Ricordo negoziati in cui si sono fatti sofismi su quale tipo di carbone non dovesse avere sussidi…

Ma, allora, le Cop servono ancora?

Sì, assolutamente, ma bisogna essere consapevoli che hanno dei limiti. Sono occasioni importanti anche per tutto il corollario di incontri della società civile, che avvengono parallelamente ai negoziati tra gli Stati. Ma non c’è conferenza Onu al mondo che possa resistere a un’economia reale che va in un’altra direzione. Oggi, vediamo luci e ombre. Ci sono gli interessi di chi si arricchisce grazie ai fossili o alle grandi monoculture che, mentre creano povertà, distruggono la natura. Ma la scienza economica afferma da tempo che la sostenibilità conviene e la finanza ha intrapreso questa via. Basti pensare che all’inizio degli anni 2000 gli investimenti sostenibili erano meno dell’1%, oggi superano il 26%. I mercati non lo fanno per salvare il mondo, ma per la maggiore solidità e, a volte, anche il maggiore rendimento. Negli Stati Uniti, già con la prima elezione di Donald Trump, sono nate reti di governatori, amministratori, organizzazioni della società civile, imprenditori (ne abbiamo accennato qui, ndr), che non si sognano di uscire dal solco dell’innovazione e della sostenibilità.

La foto in apertura è di Sam Mgrdichian su Unsplash

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