Non profit

I veri grandi (nel dare) non sono a quel tavolo

Gli otto sono ben lontani dal mantenere gli impegni con il Sud del mondo. Bill Gates e gli altri, invece, continuano ad aumentare le loro donazioni. Il ruolo dei filantrocapitalisti nell'aiuto allo s

di Carlotta Jesi

Un fantasma s?è imbucato al G8. Nessuno l?ha invitato ufficialmente, ma al tavolo degli otto grandi della Terra ci sarà anche lui. Presenza impalpabile e, al tempo stesso, di peso. Economico, innanzitutto: nel 2005, da solo, ha donato in beneficenza 1,3 miliardi di dollari, il 70% dei quali spesi per battere povertà e malattie nel Sud del mondo. Nello stesso anno, tutti insieme, i G8 sono riusciti a incrementare il loro budget di aiuto allo sviluppo di appena 5 miliardi di dollari, nonostante al summit scozzese di 12 mesi fa ne avessero promessi 50 in più ogni anno. Ma guai a pensare che sia solo una questione di soldi. Il fantasma peserà sul summit perché, al contrario dei governi dei paesi più industrializzati, ha una sua personale agenda di sviluppo. Libera dalla pressione degli elettori, cui devono sottostare Prodi, Blair, Putin e compagni, e anche dalla pressione degli azionisti che tengono in scacco gli imprenditori illuminati habitué del World Economic Forum di Davos. Gli otto leader della Terra hanno cancellato dal programma dei lavori le sessioni su pace e surriscaldamento del pianeta per sostituirle, rispettivamente, con quelle sul terrorismo e l?energia nucleare come voluto dal presidente Putin? L?imbucato del G8 ribadisce ai media che le sue priorità sono la salute globale e i contributi alla Global Alliance for Vaccines and Immunization per programmi quinquennali nei paesi poveri. Contributi condizionati dalle performance: se a tre anni dal lancio del programma non sono stati ottenuti buoni risultati, i finanziamenti al paese vengono revocati. Al contrario, se il programma è in anticipo sulla distribuzione e somministrazione dei vaccini, al paese viene assegnato un premio aggiuntivo di 20 dollari per ogni bimbo vaccinato.

Avete indovinato. È dello spettro di Bill Gates, rafforzato dalla recente donazione di 31,7 miliardi di dollari da parte di Warren Buffett, che stiamo parlando. Ma non solo di Bill Gates. Dietro di lui, trascinati dal suo entusiasmo e dall?approccio orientato al risultato con cui fa filantropia, cresce un drappello di imprenditori multimiliardari decisi a rendere questo mondo un posto migliore. In tempi brevi e senza sprecare fondi. Con budget che fanno impallidire quelli delle agenzie Onu.

Filantrocapitalisti, li ha recentemente definiti l?Economist, che non esclude un possibile interesse di mercato dietro alla lotta all?Aids sferrata da Bill Gates e colleghi nel Sud del mondo. Se il virus decima intere generazioni, a chi potranno vendere i loro prodotti? La logica è chiara e disincantata. Più naïf appaiono invece le obiezioni mosse ai filantrocapitalisti dai puristi dell?azione umanitaria: è più scandaloso che il programma Roll Back Malaria finanziato dai governi e dalle organizzazioni internazionali di mezzo mondo ammetta pubblicamente i suoi insuccessi o che Bill Gates abbatta da 2,40 dollari a 25 cents il costo di una dose salvavita di artemisina per vendere un software ai ragazzini che ha salvato dalla malaria? È più scandaloso che l?attrice Angelina Jolie venda foto della sua bimba appena nata per 4,1 milioni di dollari da destinare ad associazioni che aiutano i bambini o che l?Unicef sia cronicamente a corto di fondi perché i governi non rispettano gli impegni presi sull?infanzia?

Provocazioni, d?accordo. Ma anche segni dei tempi che cambiano e di un ragionamento umanitario che non può più basarsi solo sull?idealismo e sull?etica. Ci sono precisi indicatori di efficacia da tenere in conto. Uno su tutti: nel 2005, Gates ha donato più di un miliardo di dollari spendendo in costi strutturali 42 milioni di dollari, appena il 5%, una percentuale di quattro punti inferiore a quella del Pam, il Programma alimentare mondiale ossia l?Agenzia Onu più ricca e performante con spese di struttura che ammontano al 9% del suo budget di 3,1 miliardi di dollari.

Al di là dei numeri, i filantrocapitalisti sembrano seriamente decisi a stravolgere le regole dell?azione sociale. A cominciare dal dogma per cui la beneficenza è tale solo se diretta a ong, charity e altri enti senza scopo di lucro. Prendete i Google boys Sergey Brin e Larry Page: nello statuto della loro fondazione, che ha un patrimonio di 90 milioni di dollari, hanno inserito la possibilità di finanziare imprese profit impegnate nel sociale. Secondo una rigida logica di efficienza: se un?impresa combatte l?inquinamento meglio di una charity, chi ci impedisce di sostenerla finanziariamente? Prima di loro, s?era schierato in favore del doppio binario filantropico anche il fondatore di eBay, Pierre Omydiar che da tempo scommette sull?impresa sociale. Progresso o snaturamento dell?azione umanitaria?

Il filosofo sloveno Slavoj Zizek propende per la seconda interpretazione: bolla i filantrocapitalisti alla Gates come liberal-comunisti e invita la società civile a non mutare il proprio dna per correr dietro ai soldi di questi ?giano bifronte?. La verità, però, è che la società civile sta già cambiando. Negli Usa (dove il numero delle charity iscritte nel registro nazionale è raddoppiato in 10 anni) il numero di enti non profit che si rivolgono a società di consulenza per fondersi con altri enti è aumentato del 50% in soli due anni. Obiettivo: non disperdere gli investimenti, unire le forze invece che farsi concorrenza e aumentare il proprio impatto sociale. Non è forse il ragionamento che ha portato alla fusione tra l?impero filantropico di Warren Buffet e quello di Bill Gates?

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