Volontariato
I tagli al volontariato di Pc produrranno danni incalcolabili
Parla il capo Dipartimento della Protezione Civile, Franco Gabrielli che ci scrive “Il titolo sulla rivista è però sbagliato, siamo più vivi che mai”
di Giulio Sensi
Una nota Capo del Dipartimento della Protezione civile a proposito dell'anticipazione di questa intervista su VITA in edicola:
Gentile direttore, ritengo il titolo "La Protezione civile non c'è più. Gabrielli getta la spugna" pubblicato sul giornale oggi in edicola fuorviante e assolutamente in contrasto con il mio pensiero, peraltro fedelmente riportato nel testo dell'intervista.
La Protezione civile c'è ed è, se possibile, più attiva di prima. La legge 100 del 2012 ha ribadito, se ancora c'era bisogno, la centralità del Sistema di protezione civile per la vita del Paese. Attività di protezione civile sono previsione e prevenzione dei rischi, soccorso e assistenza alle popolazioni, superamento dell'emergenza: un ciclo che tutto può far dire, tranne che la protezione civile non esiste più. Io, come Capo Dipartimento, mai ho pensato di gettare la spugna, non l'ho mai dichiarato, nè mai lo farò (e nel testo dell'intervista non trovo alcun elemento che possa far dire il contrario); anzi, dall'approvazione della legge 10 del 2011 a oggi mi sono battuto in ogni opportuna sede affinché si apportassero le necessarie modifiche normative per ridare la giusta operatività alla protezione civile e al Dipartimento nello specifico, sforzo dal quale è nata proprio la legge 100. Sto lavorando da quasi due anni per far crescere la cultura di protezione civile in tutto il Paese perchè sono convinto che la sfida della prevenzione di protezione civile (fondamentale quanto quella strutturale) sarà vinta solo quando tutti i cittadini italiani si sentiranno parte attiva del Sistema. Come vede, c'è ancora tanto lavoro, ma siamo vivi e attivi.
Franco Gabrielli, Capo del Dipartimento della Protezione civile
Qui l'intervista integrale:
“Guardi, due ore fa ho ricevuto una nota del Prefetto di Potenza che ci relazionava sulla situazione dello sciame sismico del Pollino che dura ormai da oltre 22 mesi. In questa nota si legge che “ancora molti comuni non hanno editato il piano di protezione civile”. Il Capo Dipartimento della Protezione Civile Franco Gabrielli, che nel novembre del 2010 ha ereditato il testimone bollente di Guido Bertolaso, è uomo abituato a non usare mezzi termini. Risponde con questo esempio alla prima domanda di Vita sulle emergenze che ci aspettano nei prossimi mesi. “Lo dico con sconforto: poi magari sono gli stessi comuni che chiedono subito lo stato di emergenza quando avviene una calamità”.
Prefetto Gabrielli, l'Italia è attrezzata per gestire le emergenze che potranno arrivare?
Affermo con molta certezza che pioverà: può essere molto banale, ma è così. Siamo a metà settembre e abbiamo già avuto avvisaglie in almeno 5 territori, da ultimo le isole Eolie. Questo non mi conforta, e anzi mi costringe ad essere ancora una volta estremamente pessimista su quello che potrà succedere. Leggendo le cronache di questi episodi, il termine che vediamo ricorrere più spesso è “solito”: solito sottopassaggio, solita via, solita piazza, solito corso d'acqua. Dimostra che nella maggior parte dei disastri che accadono parliamo di situazioni ampiamente note. Pioverà ancora, e con la particolare intensità che c'è stata negli ultimi anni. In breve tempo si concentreranno molti centimetri di pioggia e i danni potranno essere ingenti nei territori dove si tombano i fiumi o si trovano discariche abusive che diventano bombe di detriti scese ed esplose a valle. Quando noi elaboriamo le previsioni non ci limitiamo a quella semplice meteorologica, ma cerchiamo di capire quali saranno gli effetti al suolo. L'incertezza di tali effetti è molto alta. I Centri di Protezione civile possono informare sulle criticità, ma la differenza la può fare solo la capacità del territorio di essere pronto, di seguire le evoluzioni degli eventi. I territori non saranno mai pronti se non ci saranno dei presidi efficaci. E devo dire ancora una volta che sugli interventi strutturali per prevenire le emergenze in Italia si è fatto poco, e oggi non ci sono soldi né tempi per fare qualcosa di significativo.
Con l'ultima riforma, la Protezione Civile avrà meno poteri, i periodi di intervento saranno più ristretti. È tornata alla sua vocazione naturale, concentrandosi sulle attività di coordinamento e di soccorso nella gestione della prima emergenza?
Credo che la riforma, che peraltro è migliore dei provvedimenti degli ultimi anni sulla Protezione Civile, ha fatto un percorso importante e significativo, ma credo anche che questa legge certifichi un aspetto fondamentale: più che ad un'ideale e ipotetica Protezione Civile, dovremo sempre di più guardare a quello che ci potremo permettere. La legge dice per la prima volta che la prevenzione di protezione civile non è strutturale, perché questa la devono fare altri soggetti deputati come Ministeri, Province, Comuni etc. Se il territorio non è preparato sotto il profilo dell'intervento strutturale, deve almeno attrezzarsi sotto quello della prevenzione di protezione civile: elaborando piani veri, conosciuti dalla gente e possibilmente frequentati da esercitazioni. Deve garantire presidi territoriali quando si verificano gli eventi. Molto si può e deve fare: l'altro giorno ho parlato con un sindaco campano che mi rendicontava come nel suo Comune si fossero attrezzati per essere perfettamente in linea con le direttive del 2004 e 2008 della Presidenza del Consiglio: conoscono territorio, fanno evacuazioni preventive. Così come ho letto con soddisfazione tutta una serie di iniziative che il Comune di Genova sta facendo. Volere è potere, non dobbiamo aspettarci interventi miracolistici dell'uomo della provvidenza.
Gli enti locali avranno ancora più responsabilità nella prevenzione delle emergenze, con l'obbligo di redarre e notificare entro 90 giorni dall'approvazione della riforma il Piano d'emergenza comunale. Si stanno attrezzando gli enti locali o si ripeteranno episodi come quello dell'emergenza neve di Roma dello scorso anno?
L'esempio che le ho fatto all'inizio relativo allo sciame sismico del Pollino è emblematico. La legge ha introdotto una complicazione non da poco: il provvedimento che emana il Piano comunale deve essere una delibera del consiglio e non della giunta. Sappiamo bene che gli atti consiliari hanno iter più lunghi. È giusto che si promuovano processi partecipati e che coinvolgano il più alto numero di soggetti, ma conosco il mio Paese e so che questo sarà un punto di debolezza perché alla fine rappresenterà un ulteriore alibi a non mettere tempestivamente mano all'edizione dei piani. Quello che è importante è che i Piani siano effettivi e conosciuti. Il nostro Dipartimento anche da questo punto di vista sta cercando di rendere pubblica tutta l'attività, da ultimo quella dei radar per fare sì che sia visibile l'evoluzione delle precipitazioni in tempo reale. Faremo così anche per monitorare la situazione dell'area vesuviana e credo che sia sempre necessario coniugare lo sforzo delle istituzioni con il coinvolgimento di informazione anche alla popolazione. Spesso a livello locale i Comuni elaborano Piani molto belli, e costosi, ma li lasciano chiusi nei cassetti, fornendo un pessimo servizio alla comunità
Registriamo da parte delle organizzazioni di volontariato grida di allarme per i tagli degli enti pubblici nei contributi, tagli che mettono a rischio anche la possibilità di svolgere servizi minimi come sorveglianza e monitoraggio. Da quando è alla guida del Dipartimento ha cercato di salvaguardare l'apporto del volontariato attingendo anche a fondi di riserva. Cosa ci aspetta per il futuro?
Per ora come Dipartimento non abbiamo toccato nemmeno un centesimo delle risorse che vanno a favore del volontariato. Ma purtroppo una serie di norme varate ultimamente avranno ripercussioni molto negative per il terzo settore, andando ad esempio ad incidere su molte delle convenzioni che i Comuni hanno con le organizzazioni di volontariato. Per noi questa è una pessima notizia. Certo, crediamo che le risorse vadano gestite in maniera parsimoniosa, senza fare convenzioni per gratificare qualcuno, ma va detto e ribadito che in Italia ci sono forme intelligenti e corrette di sostegno al volontariato che hanno garantito al Paese lo sviluppo di forze e strutture fondamentali. Il volontariato è in particolare un settore che consente di utilizzare risorse a costi assolutamente non praticabili in altro modo. Tagliare le risorse significa in generale produrre danni incalcolabili sotto il profilo non solo del servizio che si rende, ma anche ai costi che poi si devono assumere per rimediare in altro modo.
Se si fermasse il volontariato che ne sarebbe della Protezione Civile in Italia?
In questo momento in Emilia, aldilà degli straordinari interventi dei vigili fuoco e delle forze armate, la presenza più significativa è quella del volontariato. Grazie ad esso viene ancora corrisposta assistenza ad oltre 3000 cittadini delle zone più colpite, che ci auguriamo possano presto essere collocati in più idonee sistemazioni. Lo dico senza retorica o piaggeria: purtroppo molto spesso non si ha l'esatta percezione della sua importanza, alla quale va aggiunta ancora una volta la considerazione rispetto ai costi marginali che gli interventi del volontariato hanno rispetto ai benefici che producono.
Ma talvolta la generosità dei cittadini incontra ostacoli. Prendiamo ad esempio l’iter burocratico per rendere operativi i fondi dell'emergenza Emilia che sembra infinito. Non sarebbe meglio istituire un elenco degli enti abilitati alla raccolta fondi, che poi sarebbero quelli che operativamente gestirebbero i fondi sui territori?
Vorrei che si avesse il senso della dimensione di quello di cui si sta parlando. Abbiamo un evento che si è calcolato abbia prodotto danni per circa 13 miliardi di euro, noi parliamo dei 15 milioni delle donazioni, una goccia, pur importante, nel mare. Questa enorme aspettativa su questi 15 milioni è oggettivamente fuori luogo, ma sono stati donati ed è giusto vengano impiegati. Credo sia esigenza dei donatori quella di avere strutture pubbliche che ne governino l'assegnazione. È stato messo in piedi un meccanismo piuttosto semplice, il problema sono i tempi degli enti, i quali non possono essere bypassati come invece è accaduto in altre situazioni come nel sisma in Abruzzo. È stato deciso che debbano esserci presidenti e commissari a proporre i progetti. Ci sono 3 regioni che si devono mettere d'accordo, individuando i progetti stessi e poi sottoporli al Comitato dei Garanti che il Dipartimento è riuscito a nominare subito dopo che sono arrivati i nominativi da parte delle Regioni stesse. Il problema adesso è legato all'impiego. La donazione “a random” a enti che intervengono direttamente sui territori, non produce effetti virtuosi e a volte rende squilibrato l'impatto. L'intervento frazionato e senza cabina di regia pubblica e locale rischia di essere un semplice spot e di avere un effetto sperequato. Gli organi pubblici devono invece essere i “master mind” di questa attività. Ciò significa attivare delle procedure: per quanto riguarda il Dipartimento siamo pronti a fare subito i decreti necessari non appena arrivano le decisioni degli enti. Lo abbiamo fatto per il Comitato dei Garanti e lo faremo con i progetti non appena arriveranno. Credo che sia preferibile una tempistica magari non propriamente gradevole a garanzia di una procedura che consenta a tutti di avere la possibilità di conoscere l'utilizzo dei fondi.
All'orizzonte si profila la fine della cosiddetta “emergenza NordAfrica” che ha visto la Protezione Civile in prima linea su decisione del Governo Berlusconi. Qual è il suo bilancio della gestione dei profughi provenienti dalla Libia?
Credo che sia la classica vicenda nella quale ci sono molte luci e altrettante ombre. Un bilancio positivo è riconosciuto dalle strutture regionali le quali hanno voluto che la direzione di questa operazione fosse in mano al servizio nazionale di protezione civile. Ma c'è tutta una serie di ombre che sono lo specchio dell'incapacità del nostro Paese di affrontare il tema dell'immigrazione. Ci sono stati territori più preparati che hanno risposto in maniera adeguata e altri che invece hanno cercato di gestire questo problema ponendosi con la lente dei vantaggi economici. Noi abbiamo sempre cercato di far capire che volevamo fosse gestita con il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali deputati. Non siamo stati mai chiusi all'apporto delle organizzazioni internazionali che hanno a cuore questo problema e abbiamo ribadito sempre che la vera sfida di questa emergenza non era solo l'accoglienza -che è anche l'aspetto meno complicato- ma l'immaginazione e la sperimentazione di percorsi di integrazione. Su questo punto le ombre sono molte di più delle luci. Non è stata un'esperienza negativa, ma rispetto alle nostre aspettative forse avremmo potuto, sia come Paese sia come sistema, fare di più e meglio.
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