Volontariato

I risultati inquietanti di una ricerca Italiani, un popolo di «unbanked»

Siamo il Paese della Ue con la percentuale più bassa di persone con il conto corrente: sfioriamo il 70%.

di Francesco Maggio

Se ne parla da poco tempo. Non esistono definizioni univoche. Comprende molteplici variabili che vanno dal diritto all?apertura di un conto corrente al corrispondente obbligo degli intermediari di offrire un servizio minimo bancario, dall?auspicio per una maggiore attenzione ai segmenti marginali della clientela a una crescente sensibilizzazione degli operatori con la formula del codice di autodisciplina. è il social banking. Ossia l?accesso delle fasce economicamente e socialmente più deboli della popolazione alle relazioni bancarie. I cosiddetti unbanked.

Anno zero
Mentre in Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna è già in corso un dibattito sul tema, in Italia siamo ancora all?anno zero. O quasi. Visto che proprio per colmare un simile gap, la Fondazione Giordano dell?Amore, diretta emanazione della Fondazione Cariplo, ha appena ultimato la ricerca «Il social banking in Italia: un fenomeno da esplorare». Un?indagine ad ampio spettro volta, in particolare, a capire innanzitutto chi sono gli unbanked e quali le cause che impediscono loro l?accesso almeno ai servizi bancari di base. E, poi, a esplorare come il sistema bancario italiano si rapporta a quel segmento di (potenziale) clientela rappresentato dagli immigrati presenti in due grandi città come Roma e Milano.

Ultimo posto
I risultati, purtroppo, sono sconfortanti. L?Italia si piazza all?ultimo posto tra i Paesi dell?Unione europea per percentuale di cittadini titolari di un conto corrente o un conto postale (70,4%), mentre al vertice della classifica si piazza la Danimarca (99,1%), seguita da Olanda (98,9%) e Svezia (98%). Per quanto riguarda il profilo degli unbanked, esso corrisponde prevalentemente a donne (74,9%), più facilmente appartenenti alle due fasce di età estreme, dei più giovani e dei più anziani, e l?incidenza del fenomeno aumenta spostandosi dalle regioni del Nord verso quelle del Sud. Dal punto di vista occupazionale il 16% è costituito da persone con un lavoro a tempo pieno, il 4,4% ha un?occupazione a tempo parziale e solo il 3% si colloca in una posizione di precariato o lavoro saltuario. Il restante 75% circa appartiene alla macrocategoria dei ?non occupati?: casalinghe (43,4%); percettori di pensioni (16,3%); disoccupati (10%); studenti (6%). Nel complesso, quindi, emerge un profilo di unbanked che non necessariamente coincide con il cliché di emarginato sociale. Tra le motivazioni alla base dell?assenza di relazioni bancarie, spicca lo stato di ristrettezze economiche (59,3%). Ma è stato segnalato dai ricercatori come dal tenore del colloquio sia emerso fra gli esclusi la convinzione che «la banca serve ai ricchi», e cioè che i costi si giustificano solo se si hanno a disposizione consistenti risorse. Un?opinione preoccupante se si tiene conto che, non di rado, su tale sfiducia prospera il fenomeno dell?usura. Decisamente basso, poi, il livello di bancarizzazione degli immigrati. Nonostante dal 1998 il flusso delle rimesse degli immigrati verso i loro Paesi superi regolarmente i trasferimenti di denaro dei nostri emigrati (oltre 1 miliardo di euro nel 2000), oltre la metà non è circolata per i canali bancari.

Le rimesse
Ma le rimesse monetarie sono solo la punta dell?iceberg di un intenso movimento di capitali, non ancora quantificato, alimentato dagli immigrati. La ricerca si spinge così a concludere che gli istituti bancari non considerano gli immigrati presenti in Italia un segmento di clientela interessante dal punto di vista economico e sottolinea come essi si siano mostrati scarsamente interessati alle tematiche oggetto dello studio. Più penalizzati sono gli immigrati giovani e le donne, mentre l?accesso ai servizi bancari si realizza con maggiore frequenza dai 31 ai 45 anni.

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