Welfare

I rischiatutto

di Flaviano Zandonai

L’Italia è il paese della gerontocrazia, delle rendite di posizione, del posto fisso, ecc. ecc. ecc. E’ una vulgata che ormai si conosce molto bene. Eppure non mancano le eccezioni a questa regola ferrea. Ci sono ad esempio trecentomila pazzi scatenati (almeno applicando il pensiero dominante di cui sopra) che armati – beh si fa per dire – della loro partita Iva mettono al lavoro la loro conoscenza e creatività e fanno, letteralmente, del rischio il loro mestiere. Non solo perché si muovono in un mercato concorrenziale, dove se si esce è difficile rientrare perché i loro asset sono ad elevata obsolescenza e il capitale di relazioni altrettanto deteriorabile. Ma anche perché lo fanno “senza rete”, cioè con poco welfare (nonostante i crescenti prelievi fiscali avranno una pensione da fame) e senza rappresentanza (neanche uno straccio di ordine professionale). Se si aggiunge poi che i redditi sono medio bassi (non possono neanche contare su un pò di “nero” perché i loro clienti hanno tutto l’interesse a dichiarare le spese che sostengono per i loro servizi), il giudizio sulla sanità mentale di queste persone parrebbe confermato. Di loro parla ormai da qualche giorno il Corriere in una serie di articoli, l’ultimo dei quali, molto bello, firmato oggi da Dario Di Vico. Ma se ne può leggere anche in un libro di qualche anno fa scritto da Bonomi e Rullani e in siti come questo. Eppure formatori, ricercatori, informatici, consulenti vari non mollano. Questione di autostima si dice. Probabilmente legata al fatto che producono beni e servizi innovativi e soprattutto di “core” che cioé toccano aspetti centrali per le organizzazioni, senza però farne parte. Rimanendo così al riparo da tutti quei vincoli che impediscono un “libero esercizio” della propria professionalità e, in senso più ampio, della propria vita. A che prezzo però! L’impresa sociale potrebbe fare molto su questo fronte. Potrebbe dare un pò di welfare, ad esempio (considerando variabili come quella di genere con una grossa presenza femminile). Ma soprattutto potrebbe costituire un “contenitore organizzativo” adatto a ridurre l’idiosincrasia di questi professionisti per la dimensione collettiva del lavoro. Aiutandoli così ad investire meglio il loro capitale di conoscenza per farlo crescere in senso qualitativo. Chissà cosa ne pensano gli altri 299.999.

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