Welfare

I rifugiati? Noi ce li prendiamo in famiglia

A Parma dal primo febbraio è attivo un progetto innovativo promosso dal Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione. Obiettivo: coinvolgere 10 rifugiati e altrettante famiglie, proponendo a entrambi un percorso comune di 9 mesi

di Giacomo Zandonini

Lanciato alla fine di febbraio 2015, “Rifugiati in famiglia” è un progetto piccolo ma dagli orizzonti ampi. A proporlo è il Ciac – Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione, attivo in provincia di Parma dal 2001. Ne abbiamo parlato con Chiara Marchetti, ricercatrice e responsabile del progetto e abbiamo scoperto un mondo in crescita, che tenta di declinare in modo diverso l’idea di accoglienza. 

“Siamo partiti da un interrogativo semplice: il sistema di accoglienza per rifugiati è cresciuto enormemente dal 2014. Terminata l’accoglienza, però, cosa succede? Che risposta diamo alle persone e alle comunità in cui si trovano a vivere?”. Forte di un primo posto assoluto nella graduatoria nazionale del bando Sprar per il triennio 2014-2016, il Ciac è passato dall’analisi ai fatti. “Oggi abbiamo quasi 140 persone in accoglienza, nei progetti con capofila i comuni di Parma e Fidenza e solo una minoranza uscirà in autonomia, con un contratto di lavoro e un alloggio. E’ necessaria una seconda accoglienza, e con questo progetto proviamo a offrirla”. 

“Rifugiati in famiglia” mira a coinvolgere 10 rifugiati e altrettante famiglie, proponendo a entrambi un percorso di 9 mesi al massimo, “trasformativo per chi ospita come per chi è ospitato”. Ad aderire sono state “famiglie molto semplici, alle prese con la precarietà e le difficoltà quotidiane di tutti noi, ma motivate a interagire. C’è una coppia con quattro figli piccoli, una madre sola con due figlie maggiorenni, un single. Attraverso queste persone, vogliamo raggiungere le comunità, ottenendo un effetto moltiplicatore dell’accoglienza”. 

Tanto le famiglie che ospiteranno quanto i rifugiati saranno seguiti da operatori professionali del Centro. Saranno scelti migranti già inseriti nei progetti Sprar da tempo, con un buon livello di italiano, uno status giuridico già riconosciuto e un interesse verso il percorso proposto. Le famiglie, scelte insieme a uno psicologo, riceveranno 300 euro di rimborso mensile, a valere, come tutti i costi del progetto, sui fondi Sprar. “Abbiamo dialogato molto con lo Sprar, e ora questi 10 posti risulteranno a tutti gli effetti come posti aggiuntivi del progetto”.

“Rifugiati in famiglia” si innesca su esperienze fino a ora marginali ma importanti. Al primo posto quella del Comune di Torino, avviata nel 2008, che ha coinvolto 143 rifugiati in sei anni, l’80 per cento dei quali ha lasciato la famiglia ospitante con in mano un lavoro, e per cui, nel 2015, sono già stanziati 60mila euro. Seguono le iniziative della cooperativa bresciana K-Pax e della Caritas Italiana, che ha avviato un primo progetto sperimentale nel 2013, in 13 diocesi. “Questi percorsi funzionano – spiega il presidente di Caritas Oliviero Forti – ora la sfida è di metterli a sistema, cosa su cui stiamo lavorando con il governo. Non bisogna creare un nuovo canale di accoglienza, ma integrarsi con lo Sprar. Poi c’è un doppio vantaggio: si spende la metà e si ottiene molto di più in integrazione. Immaginate la differenza fra chi esce da Mineo, un centro da 4000 posti, e chi da un periodo in famiglia”. 

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