“Da sindacalista a invalido, diciotto mesi per dimostrarlo”: titolava così, ieri, il Corriere della Sera, a pagina 30, un bel servizio, con tanto di foto, dedicato da Enrico Marro alla vicenda umana di Beppe Casadio, sindacalista tosto della Cgil, nel 2002 si pensava a lui come a una possibile alternativa a Cofferati. Poi, nel 2009, vacanza maledetta in Sicilia, una grave infiammazione neurologica, il ricovero d’urgenza, la perdita dell’uso delle gambe. E così Beppe si ritrova come me, a vivere e muoversi in sedia a rotelle. Una storia come tante, di ordinaria disabilità. Sono cose che succedono, nella vita. E per fortuna le leggi ci sono, o ci dovrebbero essere, per garantire, nella nuova situazione, servizi e benefici assolutamente dovuti. Così pensava anche Casadio, che pure, militando nella Cgil, qualche dubbio sul funzionamento della burocrazia avrebbe dovuto averlo. La sua odissea, raccontata dal Corriere, è simile a tante altre storie che abbiamo segnalato qui e nelle pagine di Vita. Ovvero l’allucinante percorso per ottenere ciò che ormai era inevitabile verdetto medico, la certificazione di invalidità. Il sindacalista è capitato nel bel mezzo della “rivoluzione informatica” dell’Inps, quella gioiosa macchina di guerra descritta con dovizia di particolari dal presidente dell’Inps Mastrapasqua, sempre al medesimo giornalista del Corriere, solo pochi giorni fa. Una macchina capace di stanare un falso invalido anche se si camuffa da tetraplegico. “Una indennità su quattro è falsa”, tuonava dalle pagine del grande quotidiano, magnificando i controlli e sparando numeri come coriandoli. Contraddetto, a stretto giro, dal direttore Inps della Sardegna, tanto per non ricordare la bella lettera dei medici Inps. Ma fino a quando la polemica è rimasta una guerra sulle cifre, fra associazioni di persone con disabilità, sindacati di medici Inps, e il moderno presidente dell’Istituto, al servizio della missione di contenimento della spesa sociale, indicata con precisione chirurgica dal ministro dell’Economia, Tremonti, ognuno poteva rimanere delle proprie convinzioni. Anche l’opinione pubblica, ammesso che ancora esista, tende a credere di più alla favola della lotta ai falsi invalidi, perché di questi tempi il moralismo gioca dei brutti scherzi, e soprattutto si crede che tutti siano ladri e furfanti, tranne noi.
Ma leggere il racconto concreto di una persona attrezzata culturalmente e consapevole dei propri diritti, che non si piange addosso, e che anzi ricorda che per fortuna, avendone disponibilità economica, è riuscito a far fronte alle improvvise ingenti spese determinate dalla nuova situazione fisica e dall’impossibilità di ottenere quei piccoli benefici (prescrizione di ausili e indennità di accompagnamento) che sono diritti sacrosanti, è tutta un’altra faccenda. Beppe Casadio alla fine riesce ad ottenere quel benedetto certificato di invalidità al cento per cento. Glielo danno in forma cartacea, come si dice ora. Insomma, un pezzo di carta, compilato a mano e firmato da un medico dell’Inps, perché se avesse dovuto attendere il funzionamento telematico dell’istituto faceva a tempo a invecchiare (e ne ha già 62 di anni). E’ del tutto evidente che Beppe Casadio ce l’ha fatta non solo perché ha ragione, ma anche perché ha alle spalle un grande sindacato, che sta prendendo a cuore la vicenda dei controlli indiscriminati dell’Inps sulle certificazioni di invalidità. Scrive Nina Daita nel sito della Cgil: “La disabilità in questo Paese sta diventando un crimine”. Già. Ma forse, se i giornalisti fanno bene il proprio mestiere, non tutto è perduto.
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