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I miei sette passi nella terra di nessuno

di Redazione

La vita, il suicidio, l’energia del pubblico che trasforma un gesto estremo in opera d’arte. In un insolito incontro all’università di Bologna la performer serba presenta il suo “Seven Easy Pieces”. Alla faccia degli artisti che “rubano” ideeSignora Abramovic, ha mai pensato di concludere la sua carriera con una performance che preveda il suicidio?». «Le sembro malata o aspirante suicida? No, non lo sono. Io amo la vita più di ogni altra cosa».
L’aula magna di Santa Lucia all’Università di Bologna è gremita in ogni ordine di posto. Centinaia di giovani sono qui per incontrare lei, Marina Abramovic, l’artista serba che ha stregato New York e poi il mondo intero. Tutti la vogliono, tutti pendono dalle sue labbra. Perfino Lady Gaga ha detto di stravedere per lei, che come sempre durante le sue apparizioni pubbliche arriva circondata da un fascino e una bellezza alla Anna Magnani. Capelli lunghi, neri come i suoi occhi profondi. Carnagione chiara. Ha sessantacinque anni, ma ne dimostra almeno quindici di meno.
Tuttavia l’aspetto glamour, da solo, non giustifica tutto l’entusiasmo che suscita attorno a sé. In fondo è pur sempre una performer, e la performance è tra le forme d’arte più ostiche e a volte incomprensibili, sia per il grande pubblico che per la cerchia degli esperti.
«Concluderebbe la sua carriera con un suicidio?». Molti tra i presenti ridono quando dalla platea qualcuno osa sfidare il silenzio con questa domanda. Eppure l’interrogativo tocca la questione fondamentale non solo dell’opera della Abramovic, ma dell’arte in generale: il rapporto arte-vita. L’artista sorride: «Amo la vita più di ogni altra cosa». Anche più dell’arte.

Dramma = crescita
Si sdraia nuda su una croce fatta di ghiaccio, “riposa” per ore su un letto di candele, si procura ferite. Si infligge torture inenarrabili per poi dichiarare il suo attaccamento alla vita. «Ho sempre pensato», ha raccontato durante un altro incontro a Bologna, «che aver avuto un’infanzia difficile permette agli artisti di realizzare lavori migliori, rispetto a quando c’è la felicità e tutto va bene. Penso che se c’è la felicità non ci può essere un progresso, se si è già autosufficienti non si cerca progresso. L’essere umano cambia quando deve attraversare momenti molto drammatici: malattie terminali, incidenti, violenze, pressioni, la stessa morte. È quando ci si trova in queste condizioni che accade davvero qualcosa, c’è una sorta di transizione».
Per Marina Abramovic l’arte nasce da questo. Ed è per questo che dice di voler lavorare sulle proprie paure. «Più profondamente si va dentro a se stessi e più si può essere universali. Perché tutti abbiamo gli stessi problemi: tutti siamo spaventati dal tempo che passa, dalla morte e dalla sofferenza. È semplice. E mettendo in scena questi temi di fronte a un pubblico, creando delle situazioni e attraversandole, diventano vive, reali. Non farei queste cose nella mia vita reale, capiamoci, a me non piace fare queste cose, ma le faccio nel contesto di una performance, perché è nella performance che io e le mie azioni interagiamo con l’energia dal pubblico, la assorbiamo».

È il tempo che conta
A Bologna la Abramovic ha presentato Seven easy pieces, il film che documenta le sette performance che ha eseguito nel 2005 al Guggenheim Museum di New York, cinque delle quali sono il rifacimento di altrettante performance eseguite in passato da celebri artisti come Bruce Nauman, Vito Acconci, Varie Export, Gina Pane e Joseph Beuys.
«Il problema», dice, «è che nel passato sono state fatte moltissime cose in modo sbagliato, soprattutto quando giovani artisti hanno realizzato opere citando lavori di altri senza dichiararlo, come se fossero creazioni completamente nuove. E questo non è corretto nei confronti della storia. Siccome la performance è una “terra di nessuno”, a questo fatto nessuno ha fatto caso fino a che io ho realizzato Seven easy pieces».
Il percorso verso questa serie di performance, che si sono svolte in sette serate consecutive nel museo della Grande Mela, è stato lungo e accidentato ed è durato 12 anni. «Ho scelto alcune performance storiche di artisti che stimo e di cui amo l’opera, ma che non ho mai visto dato che a quel tempo vivevo nell’allora Jugoslavia. Per tutte ho scritto agli artisti che le avevano fatte originariamente, o se erano morti alle fondazioni che li rappresentano, per chiedere loro il permesso di rifarle. Solo quando ho ottenuto l’autorizzazione, e pagato per averla, sono stata in grado di iniziare il lavoro».
Nel caso di Chris Burden non ha ricevuto l’autorizzazione dall’autore e ha dovuto lasciar perdere, mentre dalla fondazione che rappresenta Gina Pane ha ottenuto il permesso di realizzare solo una parte della performance. Ai lavori originali l’artista serba ha deciso di aggiungere un maggiore tempo di esecuzione: le performance del Guggenheim sono durate in tutto 49 ore, e Seven easy pieces non è altro che una sintesi di 90 minuti di quei lavori. La performance, ha spiegato la Abramovic, è un’arte fondata sul tempo: se non si è nello spazio in cui essa avviene, nel momento in cui avviene, non la si può capire.

L’arte come vita
Saranno forse questa sincerità e questo rigore ad affascinare così tanta gente. Il carisma di una persona che non finge, che crede profondamente in quello che fa. Che mette la sua opera, e le sue riflessioni sull’arte, al servizio della vita, perché è quest’ultima che conta davvero. Come nell’ultima grande performance, quella svolta l’anno scorso al MoMa, quando per tre mesi restò seduta in silezio ad attendere chi volesse sedersi di fronte a lei per incrociare il suo sguardo. The Artist Is Present: ogni giorno sette ore, dieci al venerdì: 736 ore e 30 minuti di lavoro, la più lunga performance mai realizzata. E la più difficile.
«Se fai performance da un’ora, da tre ore o da sette, puoi sempre far finta, puoi sempre recitare», confessa. «Ma tre mesi è la vita reale, è la nuda verità, non puoi interpretare una parte. È la performance che più mi ha trasformata, e quella che ha trasformato il pubblico che l’ha compiuta insieme a me. È accaduto davvero qualcosa. La mia anima e la mia mente sono cambiate».

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