Formazione

I miei giorni a Bagdad

Parla Alfonso Rojo, l’ultimo reporter del 91.

di Paolo Manzo

Alfonso Rojo è uno degli inviati di guerra più esperti al mondo: Nicaragua, El Salvador, Afghanistan, Libano, Romania, Unione Sovietica, Golfo Persico, Jugoslavia, Sudafrica, Albania, Rwanda, Perù, Cecenia e Zaire sono solo alcuni dei Paesi in cui ha rischiato la vita negli ultimi 25 anni. Nel 1979, quando stava seguendo la guerra civile in Nicaragua, fu arrestato e imprigionato per lunghissimi giorni dalla Guardia nacional di Anastasio Somoza. Poi il governo di Madrid riuscì a farlo liberare. Nel 1991 fu l?unico rappresentante della stampa che coprì interamente la guerra del Golfo, da Bagdad, sotto i continui bombardamenti. Nel giugno del 1992 fu gravemente ferito a Sarajevo, mentre stava seguendo l?assedio alla città delle truppe serbe. Lo abbiamo contattato alla redazione del quotidiano spagnolo El Mundo, una delle testate più prestigiose di Spagna e di cui Rojo è condirettore. “Vedremo, ma per gli inviati il margine di manovra di questa guerra sarà molto stretto. Credo che in un mondo come l?attuale l?informazione sia molto difficile. E in Iraq lo sarà ancor di più per un duplice motivo. Da un lato gli Stati Uniti usano un sistema incredibile di informazione inaugurato con la guerra delle Malvinas che permette una copertura totale. Per loro sarà semplice, mentre i giornalisti che saranno a Bagdad potranno fare solo dei servizi di ?colore?”. Vita: Lei a Bagdad nel 1991 è rimasto sino alla fine, come mai è così pessimista sul lavoro degli inviati di guerra? Alfonso Rojo: Le mie sono considerazioni che derivano dall?esperienza. Non sarà né il Vietnam né i Balcani, dove era facile intrufolarsi tra gli schieramenti. Nei due mesi e mezzo della guerra del 1991 né io né Peter Arnett abbiamo mai visto dei soldati morti. Mai. Glielo dico a scanso di equivoci e, delle 150mila vittime irachene, il 99% furono soldati. Ma ci fu impedito da Saddam di andare al fronte. Per cui il problema non sarà solo il monopolio dell?informazione nelle mani del Pentagono, ma anche e soprattutto il rigido controllo imposto dal regime di Saddam. Vita: Lei andrà di nuovo a Bagdad? Rojo: No, perché il regime di Saddam non mi concede il visto. Ma non sono il solo. Neanche Christiane Amanpour della Cnn lo ha ottenuto. Io andrò in Turchia e poi seguirò il conflitto dalla zona del Kurdistan iracheno. È il sistema migliore per lavorare sul campo. Vita: Che ne pensa dell?intervento di Peter Arnett sul Guardian e sul Corriere della sera? Rojo: Sono d?accordo con lui in linea di fondo. Ma non concordo quando dice che le immagini della presunta, e sottolineo presunta, fabbrica di latte in polvere per bambini furono quelle che fecero fermare la carneficina. Le vere immagini che diedero lo stop a Schwarzkopf furono quelle girate al confine con il Kuwait, quando tutti al Pentagono si resero conto che estrarre cadaveri dai tank iracheni era ormai facile come tirare fuori le sardine da un barile. Lì morirono quasi 150mila soldati del raìs, non dimentichiamolo. Fu il timore di Saddam che i kurdi nel Nord e gli sciiti nel Sud lo potessero scalzare dal potere che gli fecero firmare l?armistizio. Vita: Che previsioni fa? Rojo: Sarà una guerra molto rapida, l?Iraq non può fare nulla e, tecnicamente, Saddam non ha opzioni. Se schiererà l?esercito ai confini, come fece nel 1991, sarà spazzato via in tempi ancor più brevi di allora. Se non lo farà, mantenendo le truppe a difesa di Bagdad, alle prime bombe perderà definitivamente il controllo del Paese e gli iracheni si ribelleranno . In entrambi i casi è in trappola. Vita: E perché, allora, non lascia o accetta senza condizioni il disarmo Onu? Rojo: Ha ancora in mente il ?91, quando una serie di colpi di fortuna gli permisero di restare. E il ritardo Onu nel dichiarare la ?no fly zone”, gli permise di vendicarsi e uccidere 500mila sciiti e 100mila kurdi. Vita: E le armi di distruzione di massa? Rojo: Ok, ma con che cosa potrà lanciarle? Con la fionda?


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