Pare che la politica italiana non abbia ormai altro approdo che quello di solleticare il rancore per quotarlo al mercato della politica. È il rancore, infatti, il sentimento più coccolato dalla politica italiana. C’è chi solletica il rancore verso gli stranieri, chi verso l’avversario politico trasformandolo in un nemico e se possibile nel male assoluto, c’è chi solletica il rancore istituzionale, verso il Governo, verso la magistratura e verso il Quirinale. Derubicate le ideologie, qualsiasi forma di idealità e persino di passione civile, l’unico motore della politica oggi è il rancore.
Così il dizionario della lingua italiana definisce il rancore: “Avversione nei confronti di qualcuno per un torto o un’offesa subiti”. Ecco, pare che alle parti politiche in commedia, deprivate di ogni sogno e di ogni ipotesi costruttiva sul futuro del Paese, non sia rimasta altra arma di consenso che quella di suscitare quotidianamente avversione nei confronti di qualcuno o di qualcosa, e quella di spingere i cittadini a sentirsi offesi o vittime di torti non importa se solo presunti (come nel caso della lunga e pietosa querelle sui requisiti formali di 3.500 firme per liste che raccolgono milioni di voti a fronte di un torto ben più reale, quello della possibilità di votare per tutti i cittadini, come ha giustamente sottolineato il Presidente della Repubblica).
Il rancore come motore della politica necessita di una strumentazione ben congegnata e organizzata e soprattutto pervasiva, e di una concezione di cittadino visto nella sua individualità, senza legami, senza appartenenze, solo, e perciò naturalmente più propenso all’indignazione che alla costruzione. L’interlocutore perferito della politica del rancore è il cittadino solo colto nella sua condizione di paura o di indignazione.
Per produrre un cittadino che riduca la concezione di sé e della sua cittadinanza al fatto di essere spaventato o indignato è necessario un circuito politico-mediatico-giudiziario totalmente irrelato con la realtà della vita quotidiana e capace di sfornare allarmi e scandali a getto continuo sulla testa dei cittadini. In questo le tre caste di questo Paese si sostengono a vicenda e sono necessarie l’una all’altra.
L’armamentario è noto, scandali sessuali, corruzione, tangenti e disonesta diffusa, prepotenze, impunità. Il metodo anche. Quello delle intercettazioni e dei pedinamenti lunghi magari 18 mesi, i faldoni dei Gip imponenti di migliaia e migliaia di pagine, le cui risultanze vengono rilasciate in modo seriale e illegale, ovvero prima di ogni avviso agli imputati e prima di qualsiasi interrogatorio di garanzia. Puntate e puntate di talk show in cui brani di intercettazioni vengono replicate sino alla noia con la voce di speaker ed attori, pagine e pagine di giornali, pezzi di ordinanza online, sino alla restituzione addirittura di file audio delle voci intercettate su web.
Ordinanze che, d’altra parte, contengono espressioni di una violenza impressionante e non giustificata da alcun elemento probatorio, come quella del Gip di Firenze nell’inchiesta sulla Protezione, “Cricca di banditi”, “Combriccola di veri banditi”, “Gente che ruba tutto il rubabile”, “Persone da carcerare”; o quella del Gip di Milano sull’inchiesta Broker, che parla di “gruppo criminale” e di “appartenenti ad organizzazioni legate da vincoli omertosi, la cui violazione è notoriamente sanzionata da intimidazioni e violenze che, spesso, giungono a cagionare l’uccisione sia di quanti si oppongano ai progetti delittuosi che degli stessi appartenenti al sodalizio criminale ritenuti non più affidabili”.
Palate e palate di merda quotidiane per mesi e mesi che fanno piazza pulita di ogni percezione positiva dell’essere al mondo e dell’esercizio di ogni cittadinanza degna di questo nome che non può che sognare e mirare alla costruzione di una società, o di pezzi di società, più umani, più giusti. Palate e palate di merda talmente inevitabili e così pervasive che tolgono il fiato e riescono a fare piazza pulita dello sforzo di ogni agenzia educativa (genitori, scuola, associazioni, ect) che non possono che introdurre alla realtà se non partendo da un’ipotesi positiva e dall’esercizio del senso di responsabilità di ciascuno. L’osceno profumo della rappresentazione del proprio Paese non può che produrre un senso di impotenza e di rancore che taglia alla radice ogni ipotesi di cittadinanza attiva. Spingendo quel che resta di un popolo dentro una platea per spettatori in cui il rito principale è l’autoassoluzione verso i propri comportamenti (perché la colpa è sempre degli altri).
Al cittadino medio, che comincia a sospettare che tale impressionante emersione di merda sia il frutto di altra merda che spinge da sotto, non rimane che inscenare, da spettatore, il proprio rancore, il proprio risentimento e la propria indignazione, solleticato, di volta in volta, da una parte politica o dall’altra che per riuscire nella mobititazione dei cittadini spaventati e disorientati devono fare a gara nello spararla grossa, come i Gip citati e come i giornalisti alla Feltri o alla Travaglio che fanno dell’offesa agli altri uno stile, anche il personale politico si produce in una escalation verbale degna di migliori cause e i cui campioni restano Bossi, per meriti acquisiti, e Di Pietro per le più recenti performance. Si va di emergenza in emergenza, “Emergenza clandestini”, “Emergenza criminalità”, “Emergenza democratica”, “Emergenza giustizia”. Usando se non lo stesso vocabolario la medesima grammatica.
L’ultimo prodotto di questo perverso meccanismo che svuota ogni ipotesi di cittadinanza attiva e ogni prospettiva di reale cambiamento è l’incubazione del cosiddetto “popolo viola” che grande spazio ha nel circuito mediatico-politico e giudiziario malgrado lo scarso spessore di realtà. A sostegno del proprio gioco irrelato, infatti, il circuito di potere di cui sopra, in cerca di nuovi assetti post berlusconiani, ha necessità di produrre e di incubare almeno qualche ipotesi di realtà, fu così con il popolo dei fax, poi con quello delle mail, poi con i grillini, i gruppi di facebook, ect. Un percorso che oggi approda in questa rappresentazione funerea e menagramo fatta di sciarpe e fazzoletti viola, di bare, di annunci funebri, manifesti listati a lutto. Insomma simboli e rituali da scongiuri.
Eppure è così, come se fossimo chiamati a celebrare da perfetti idioti, il funerale di ogni ipotesi di cittadinanza.
Che fare di fronte a questa deriva? La mia risposta è questa: stare alla sostanza delle cose, imparare a giudicare i fatti senza noleggiare in fretta opinioni altrui, continuare, con tenacia e fedeltà a costruire qualcosa di nuovo.
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