La tecnica è più che collaudata, antica quanto il potere di uno su tanti, di pochi su tutti. Colpevolizzare chi sta in basso, per garantirsi che non alzi la testa, non si accorga che il Re è nudo. Non osi ridere o contestare, non arrivi a comprendere che i problemi e drammi che lo colpiscono derivano proprio da chi sta in alto, dalle sue azioni, errori o omissioni.
Nei tempi del Coronavirus, in queste settimane, la narrazione tossica che rovescia verità e responsabilità si è fatta massiccia e intimidatoria: se i cittadini non si disciplinano con le buone, bisognerà passare alle cattive, sono arrivati a minacciare politici della rude razza padana, dallo stile meno ovattato. Quegli stessi che, magari, appena pochi giorni prima invitavano alla “normalità”, preoccupati delle sorti dell’economia o, meglio, di quelle di imprese e padroncini. Soggetti economici di cui la medesima narrazione fraudolenta ha costruito da decenni – con generalizzato successo, occorre riconoscere – l’immagine di architrave fondamentale dell’intera società. Insostituibili, quali che siano i disastri che determinano.
Siamo ormai in una Repubblica non già fondata sul lavoro ma sui datori dello stesso, vale a dire su coloro che lo organizzano, lo disciplinano, lo rendono massimamente produttivo in modo da trarne il massimo profitto. Naturalmente, facendone poi gocciolare qualche piccolo rivolo verso il basso, che la macchina non si deve inceppare, l’asino non deve morire di stenti se si vuole che la ruota continui a girare.
La pandemia in corso ho però imposto un salto, una deroga, all’antica regola. Si può, anzi si deve, rischiare di perdere l’asino se vi è il rischio concreto che la ruota si fermi. Non tanto perché ciò danneggerebbe i risultati, diminuirebbe o sia pure arresterebbe il flusso del profitto. Sarebbe pur sempre un fatto temporaneo, e nei forzieri si sono accumulate inesauribili ricchezze, tanto più da quando queste dipendono dai giochi finanziari, cui è subordinata l’economia e la stessa produzione di beni materiali. Denaro a mezzo di denaro. Bisogna perciò imporre che la ruota non si fermi, a costo della strage, perché, diversamente, diverrebbe più evidente chi produce quella ricchezza sociale che viene poi in larga parte sequestrata dai pochi.
Se vi sembra un ragionare datato, ideologico o astratto, basti guardare senza pregiudizi alla vicenda dell’ultimo decreto Conte, che avrebbe dovuto fermare i lavori non indispensabili e invece non lo ha fatto, cambiando all’ultimo le carte in tavola e infrangendo impegni e promesse, nonostante gli annunci e le necessità. Oltretutto, i buoi erano fuggiti dalla stalla già da settimane, a prezzo di migliaia di morti.
I padroni della ruota ordinano, la politica obbedisce. È storia di sempre e non basta ancora il numero impressionante di vittime per metterne in discussione i fondamenti e la vigenza.
Alle radici dell’austerity
Ricordate nei dettagli il primo periodo successivo alla precedente crisi globale del 2007-2008? È improbabile, poiché i ricordi ormai funzionano solo a breve, la corrosione della memoria è una malattia sociale scientificamente inoculata che pare colpire quasi tutti. In ogni modo, allora il disastro provocato dal castello di carte della finanza speculativa (ma ne può esistere una che non lo sia?) indusse nell’immediato una assai fondata reazione di rabbia contro i padroni di quel castello.
La strategia di chi governava e governa, o meglio comanda, quei processi e il sistema, fu divisa in due fasi. La prima, difensiva e di sopravvivenza, centrata sul salvataggio (con soldi pubblici, naturalmente) delle banche private e della finanza nel suo complesso, costato almeno 20.000 miliardi di dollari a livello globale. La seconda è stata invece una fase di attacco e di rilancio: un’articolata decostruzione del senso comune e delle evidenze (la responsabilità di banche, grandi istituti finanziari e assicurativi, agenzie di rating e di controllo nello scatenamento della crisi e nella determinazione dei suoi presupposti) e della successiva costruzione di un nuovo senso comune e di una credenza (l’eccesso di spesa pubblica, il costo insostenibile della politica, l’impossibilità di continuare a garantire ai cittadini il “lusso” del welfare).
Quella è stata la necessaria premessa per aprire un nuovo corso di ulteriore saccheggio delle ricchezze pubbliche e dei beni collettivi. In particolare, della loro privatizzazione, a cominciare dal complesso dei servizi di protezione sociale sino ad allora garantiti dal modello europeo, anche se già da tempo in progressiva erosione. Si trattò di una nuova e gigantesca occasione per soddisfare gli appetiti famelici e socialmente irresponsabili della grande finanza e delle corporations transnazionali.
«Il modello sociale europeo è superato, servono liberalizzazioni e riforma del lavoro», esultava all’inizio del 2012 l’osannato presidente della Banca centrale. La lotta di classe dall’alto aveva abilmente e rapidamente trasformato l’evidenza della distruttività del paradigma liberista, la crisi globale, in una vittoria, mettendo nell’angolo i riottosi, aggredendo i fondi sovrani e preparandosi a spolpare la Grecia.
Mentre quel gigantesco crimine veniva compiuto, a livello politico nazionale e comunitario quasi tutti si allineavano complici, parecchi guardavano da un’altra parte, pochissimi perseveravano nel vizio scandaloso della verità. Molti tra i primi sono gli stessi che governano ancora oggi, decidono e gestiscono le risposte alla pandemia in corso, che ha bruscamente richiamato tutti alla consapevolezza e che, se non altro – ma a caro prezzo – ha decretato il superamento di quell’austerity e l’accantonamento del dogma autoritario dei trattati di stabilità e del Fiscal compact.
Eppure, persino adesso, le amnesie permangono e rischiano di pregiudicare quel futuro che, in ogni modo, sarà inevitabilmente diverso: dopo il coronavirus nulla tornerà come prima.
In questi giorni anche la memoria a breve sembra ormai compromessa e svaporata: paiono già dimenticate le esternazioni dei governatori del nord Italia e dei segretari politici di soli pochi giorni fa. Per non dire dei Trump e dei Johnson e della menzogna eretta ad arte e portata a livelli inimmaginabili, sempre con la condiscendenza del sistema mediatico mainstream.
La nuova narrazione dominante pare infatti ipnotizzare con successo la gran massa dei cittadini, reclusi in casa dai decreti governativi e dalla paura. Mobilitati sui balconi a ballare e cantare, meglio se l’inno nazionale, o, peggio, a inveire contro i supposti disertori, nell’antica e sempre funzionante induzione all’odio e alla guerra tra poveri, che preserva il potere: proprio come Cadorna a Caporetto.
Il virus del capitalismo e il vaccino della memoria
La pandemia da Covid-19 è stata fatta diventare un capitolo della shock economy, l’uso catastrofi e delle emergenze, provocate o cavalcate, per rafforzare il proprio potere e per drenare ancora maggiori ricchezze nel truffaldino trickle up turboliberista.
Anche il depauperamento della sanità pubblica, di cui subiamo ora con maggiore drammaticità gli effetti, è stato parte del percorso che ha istituito l’austerity quale religione europea indiscutibile sotto l’inflessibile guida dell’ordoliberismo teutonico.
Dunque, si tratta di precise scelte, non di casualità o accidenti. Con altrettanto precise responsabilità, individuali e di sistema. Per occultare le quali in questi tempi terribili, con le migliaia di morti che dovrebbero gridare vendetta o almeno giustizia, si è prontamente allestita e articolata, complici di nuovo gran parte dei media e dei commentatori, la campagna di manzoniana memoria contro i novelli untori, i runner, e la colpevolizzazione dei cittadini dubbiosi o riottosi. Tanto indisciplinati da dover essere sottoposti al controllo capillare, persino con droni e geolocalizzazione; forse dalla Cina, oltre che mascherine e medici, sono arrivati anche tecnici e consulenti della sorveglianza. Cittadini che, nel caso, se non bastano le ferme raccomandazioni e poi le minacce, vanno sottoposti all’energica repressione dei militari (leggere qui uno dei tanti possibili esempi). Soldati e poliziotti che a nessuno viene in mente di utilizzare ben più utilmente semmai per recapitare la spesa a chi è a casa, supplendo all’incapacità delle catene dei supermercati, lesti ad alzare i prezzi assai meno bravi a reggere situazioni straordinarie, nonostante l’ammirevole impegno di lavoratori e cassiere.
La strategia di progressione dell’autoritarismo
È un paternalismo autoritario e progressivo (cfr. Pierre Dardot e Christian Laval) che difficilmente verrà revocato a emergenza conclusa. La storia ci ha insegnato proprio in Italia – con la “madre di tutte le emergenze”, quella degli anni ’70 – che le procedure d’emergenza si stabilizzano e perpetuano, riproducendosi di continuo in forme o per cause simili o nuove ma sempre finalizzate a rendere più verticali, indiscutibili e incontrollabili i poteri affermatisi o consolidatisi grazie all’eccezione.
A ciò, peraltro, è funzionale l’abuso del linguaggio e delle metafore belliche con cui si parla del contagio in queste settimane. Quanto sia fondato il rischio della permanenza della militarizzazione della vita sociale anche dopo, ce lo ha ricordato il quotidiano dei vescovi (qui), non gli antagonisti dei centri sociali; i quali invece in questi giorni sono impegnati nel soccorso dei più deboli, di anziani soli, malati, senza dimora (e la ferocia delle denunce nei loro confronti, poiché trovati per strada, ancor più abbandonati e impossibilitati, è una vergogna che dovrebbe rimanere scolpita negli annali).
Come spesso nelle situazioni-limite, in effetti, emerge il peggio ma anche il meglio, l’arroganza del potere e della repressione ma pure la solidarietà, le buone prassi, una visione e una pratica di società alternativa.
I cittadini si trovano reclusi in casa, e in questo caso giustamente, ma assieme vengono infantilizzati e intimiditi. Proprio come avviene nel carcere vero nei confronti dei detenuti. Gli unici, peraltro, che sinora hanno provato a ribellarsi, sia pur in modo controproducente e autolesionistico, assieme a qualche pezzo dei lavoratori della logistica.
Di fronte alla marcia indietro del presidente del Consiglio si protesta, e meno male (loro ce ne hanno date, noi gliene abbiamo dette, pur con molto rispetto), ma a voce non sufficientemente alta e decisa, senza ancora arrivare a già tardivi scioperi generali.
Lo si farà, forse e sperabilmente, tra poco. Con qualche centinaio o migliaio di morti in più sulla impermeabile coscienza dei padroni del castello di carte.
La strage dolosa è destinata così a continuare, tra i cittadini e tra i soccorritori. Continua privandoci addirittura del rito del cordoglio. A causa di essa scompare e ci viene sottratta ancora di più la memoria di uomini e donne del secolo scorso, che hanno vissuto guerra, Resistenza e dopoguerra, la cui vita pare oggi trattata come depositaria di un minor valore, come meno meritevole di speranza, sforzi e considerazione.
C’è da augurarci – per sé e per tutti – che da loro, e nel loro ricordo, vi sia un passaggio di testimone ai giovani di oggi, che stanno vivendo una situazione inimmaginabile sino al giorno prima e la cui rapidità di evoluzione ancora colpisce profondamente, assieme ai ritardi di reazione.
Che rimanga almeno questo, che i sopravvissuti conservino precisa e implacabile memoria di questi giorni. I giorni dell’impegno e della dedizione di medici e infermieri, in primo luogo (e chissà se in trincea ci sono anche i manager delle Aziende in cui sono stati trasformati gli ospedali). Ma anche giorni dell’infamia, degli errori evitabili, della situazione sanitaria e strutturale drammatica dovuta alle scelte politiche bipartisan degli ultimi trenta o quarant’anni, del sacrificio imposto d’autorità a tanti lavoratori. Per i padroni del castello di carte, evidentemente, anche la loro vita è leggera come piume.
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