Famiglia

I Gesuiti: maternità surrogata? La libertà si costruisce nella relazione con l’altro

I passaggi più significativi dell’analisi di Francesco Occhetta che comparirà sul numero de La Civiltà Cattolica in uscita sabato: «Le domande antropologiche ed etiche che tale pratica suscita toccano la radice del significato di vita, di corpo, di rapporto madre- figlio, di dignità, di memoria, ma anche di dono e di reciprocità»

di Francesco Occhetta


Il numero de La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti diretta da Antonio Spadaro, in uscita sabato ospita un importante contributo sulla maternità surrogata da Francesco Occhetta. «È tra i temi politici più strumentalizzati nel dibattito pubblico. È l’esempio in cui le categorie dell’umanesimo cedano il passo a quelle del post-umanesimo, in cui la riflessione pubblica si limita ad accogliere (passivamente) i traguardi della tecnica. Ci chiediamo: quando viene lesa la dignità delle persone deboli come il nascituro e la gestante madre? E quanto il desiderio soggettivo di una coppia committente può diventare diritto in un Ordinamento democratico? Un approccio antropologico alla maternità surrogata richiede di portare la domanda al cuore della tecnica per cercare come questa possa servire l’uomo, senza servirsene». L’analisi di Occhetta, che Vita.it è in grado di anticiparvi nei passaggi più salienti, prova a rispondere a tutte le domande più stringenti.

La maternità surrogata è una pratica di procreazione in cui la donna si impegna a portare avanti una gravidanza per poi consegnare il neonato che darà alla luce a una coppia committente. È tra i temi più delicati e scottanti del dibattito pubblico, a partire dai modi diversi in cui viene definita: è chiamata «gestazione per altri», «gestazione d’appoggio», oppure «utero in affitto».

Le domande antropologiche ed etiche che tale pratica suscita toccano la radice del significato di vita, di corpo, di rapporto madre- figlio, di dignità, di memoria, ma anche di dono e di reciprocità. Sembra che nel dibattito politico le categorie dell’umanesimo abbiano lasciato il posto a quelle del post-umanesimo, in cui la riflessione pubblica si limita ad accogliere (passivamente) i traguardi della tecnica. Il magistero della Chiesa, invece, ci invita a integrare le nuove scoperte biologiche e tecniche per collocarle in un orizzonte antropologico che ponga al centro il significato della vita umana e della dignità. È a partire da qui che evidenzieremo alcuni criteri di discernimento per comprendere la pratica della maternità surrogata.

Maternità surrogata: definizione e comparazione

Esistono diversi tipi di maternità surrogata: quella in senso stretto, in cui l’embrione si ottiene da gameti maschili di un membro della coppia e da gameti femminili della gestante. In questo caso, la donna che fornisce l’utero è la stessa che fornisce gli ovuli. C’è poi la maternità surrogata totale, in cui gli spermatozoi sono di un donatore terzo, mentre la madre che dà alla luce il bambino mette a disposizione l’utero, ma non gli ovuli. È il caso, per esempio, in cui la gravidanza è portata avanti grazie a un ovulo già fecondato, formato dall’unione di cellule riproduttive della coppia committente.

Nei Paesi in cui la maternità surrogata è permessa, la madre biologica, che fornisce gli ovuli, non è colei che darà o affitterà l’utero per portare avanti la gestazione. È questa separazione tecnica che permette alle posizioni culturali in favore della procreazione surrogata di giustificare una figura giuridica che, invece di essere madre genetica, è una sorta di incubatrice. Per la tecnica medica, distinguere le funzioni e i compiti procreativi rende in qualche modo «neutra» la gestazione, che potrebbe non avere alcun legame biologico con la coppia.

Nel 2013 l’Unione Europea (Ue) ha pubblicato uno studio che mette a confronto la legislazione degli Stati membri sul tema del- la maternità surrogata1. Ne risulta un quadro complesso. Italia, Francia, Germania, Spagna e Finlandia la proibiscono. In Austria e Norvegia è tollerata, se l’ovocita appartiene alla donna che mette a disposizione il proprio utero. In Grecia la surrogazione è consentita solo attraverso rimborsi e non compensi. Belgio, Paesi Bassi e Danimarca la limitano all’adozione, che stabilisce una filiazione successiva. La Svezia da garantista sta diventando proibizionista a causa del dibattito sociale introdotto dalla pratica, mentre in Inghilterra il sottosegretario alla Salute, Nicola Blackwood, ha annunciato la formazione di una Commissione per estendere il permesso anche a persone sole e alle coppie omosessuali.

Gli Stati che la permettono senza riserve sono Russia, Thailandia, Uganda, Ucraina, Nepal e alcuni degli Stati Uniti. Nel 2013 l’India ha ristretto la sua normativa, ma, come è noto, le donne indiane accettano questa pratica a causa della loro situazione di indigenza, e in molti casi sono soggette a un vero e proprio sfrutta- mento. Si calcola un business di oltre tre miliardi di euro, che ruota attorno a 3.000 cliniche indiane. Qui si stimano circa 1.500 nascite l’anno attraverso una maternità surrogata, un terzo delle quali per conto di stranieri.

L’Ucraina è la meta più ambita in Europa: la legge di questo Paese prevede infatti che sul certificato di nascita compaia esclusivamente il nome dei genitori committenti.

Gli Usa hanno disciplinato la materia circa 30 anni fa, ma nei vari Stati vige una disciplina giuridica molto differente. In California e in Canada la maternità surrogata è regolata con contratti minuziosi, gestiti da agenzie private, che fissano cifre «di mercato» per la madre surrogata a partire da circa 20.000 dollari, mentre il costo totale del servizio si aggira sui 150.000 dollari. Nei contratti si trovano clausole che disciplinano i minimi dettagli: dal catalogo in cui scegliere i tratti somatici e genetici del futuro bambino fino al divieto per la madre surrogata di ripensarci e scegliere di tenere il bambino. Vengono regolati le condizioni di salute della madre e del neonato, la possibilità di rifiutare il bambino che nasce con mal- formazioni, il tipo di alimentazione del periodo della gravidanza, lo stile di vita da tenere nei nove mesi della gestazione, fino alle forme del distacco che vietano l’allattamento della madre al bambino ma la obbligano a fornire il latte.

In questi Paesi si richiede che la gestante abbia avuto altri figli e si trovi in buone condizioni economiche, per garantire un buon equilibrio psico-fisico-economico al nascituro. Sul certificato di nascita è possibile scrivere il nome di entrambi i genitori riceventi senza avviare una procedura di adozione post-nascita.

È più difficile, invece, risalire al numero delle nascite, perché molti Paesi non lo rendono pubblico.

In Italia la pratica è vietata dalla legge n. 40/2004 sulla procrea- zione medicalmente assistita, che prevede una pena di reclusione che va dai tre mesi ai due anni e una multa da 600.000 euro a un milione di euro a «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza […] la surrogazione di maternità» (art. 12, comma n. 6).

A fondamento della norma ci pare di riscontrare alcuni princìpi di cultura giuridica, come quello della mater semper certa, e l’ispirazione personalista della Costituzione, che tutela la dignità della persona, da cui dovrebbe discendere il divieto di contrattare la disponibilità del corpo per generare una vita.

D’altra parte, aggirare i divieti è fin troppo facile: è sufficiente andare nei Paesi in cui è permesso. Basta, infatti, un legame genetico con un membro della coppia e il bambino può essere poi portato in Italia come figlio naturale.

La maternità surrogata nel dibattito pubblico

Ci chiediamo: in un Ordinamento democratico, la libertà del soggetto e la legittimazione di un desiderio possono diventare un diritto, se ledono la dignità di altri? Il dibattito ha diviso anzitutto il fronte femminile-femminista tra esponenti contrarie in ogni caso e posizioni che distinguono tra fini commerciali da condannare e l’espressione di una libertà femminile da favorire perché vissuta come un dono. Si tratta di una posizione culturale latente, che si potrebbe sintetizzare così: «Come donna io non lo farei mai, non vorrei nemmeno che lo facesse mia figlia, però non ho alcun diritto di vietare a una donna adulta di aiutare un’altra donna che non ha l’utero o una coppia sterile».

L’obiezione è stata presa in considerazione in un incontro internazionale tenuto a Montecitorio il 23 marzo scorso, dal titolo «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale».
Al Convegno – cui la presidenza della Camera non ha purtroppo

concesso il patrocinio – esponenti di tutte le forze politiche, diverse ministre e rappresentanti del movimento internazionale contro la maternità surrogata hanno firmato una mozione, da sottoporre all’Onu, che ritiene la maternità surrogata una «pratica lesiva dei diritti umani delle donne e dei bambini».

È anzitutto emerso come una nuova corrente culturale si vada insinuando nelle coscienze delle donne: «La “madre surrogata” – ha affermato la giurista Silvia Niccolai – è il modo per proporre alle donne un nuovo “ideale” femminile, di una donna separata dalla sua esperienza, che sa staccarsi dal bambino dopo il parto, che sa essere razionale, che è generosissima, che sa da subito che suo figlio non è suo e che non è sua neppure la gravidanza. Si coltiva una sorta di pedagogia che insegna alle donne che l’esperienza vissuta nel loro corpo non è loro, così non si affezionano al bambino, non si toccano la pancia». Siamo di fronte a una pedagogia della responsabilità dell’essere per l’altro o a una nuova sudditanza? In origine, infatti, la maternità è frutto di un dono che perde di valore se diventa uno scambio.

Elementi morali per discernere

È significativo anche il silenzio su questo tema da parte della stampa europea. Lontano dagli echi mediatici, la Carta di Parigi, firmata il 2 febbraio 2016, è stata di recente discussa nei Parlamenti degli Stati membri per proporre l’abolizione della maternità sur- rogata. Promossa da esponenti come la scrittrice socialista Sylvia- ne Agacinski e da rappresentanti dei diritti umani, delle famiglie, del mondo politico e culturale europeo, in uno dei suoi passaggi più significativi si legge: «Lungi dall’essere un gesto individuale, questa pratica sociale è realizzata da imprese che si occupano di ri- produzione umana, in un sistema organizzativo di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie ecc. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d’uso e di un valore di scambio, e si inscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano».

La valutazione etica della maternità surrogata, per gli elementi emersi, non può limitarsi a stabilire una sorta di «argine» al limite delle tecniche di procreazione artificiali. Non si tratta nemmeno di fissare parametri – quanto sarebbe giusto o dove sarebbe troppo – per capire fin dove è possibile arrivare con uno strumento tecnico che di per sé dovrebbe essere neutro. Infatti, essendo coinvolte la persona e la sua dignità come oggetto dell’agire tecnico, bisogna ricordare quell’imperativo che Immanuel Kant identificava come punto chiave del comportamento umano: «Agisci in modo da con- siderare l’umanità, sia nella tua come nella altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo».

La valutazione etica di tale prassi si pone al più radicale dei li- velli dell’umano, quello del senso della vita. Parlare di un approccio etico alla maternità surrogata significa portare la domanda morale al cuore della tecnica per cercare come questa possa servire l’uomo, senza servirsene. Trasformare la procreazione in una produzione rivela un decadimento della percezione dell’umano verso le derive del post-umano: l’uomo svuotato del significato antropologico uni- tario, che rimane malleabile e plasmabile secondo il desiderio dei più forti e dei più ricchi.

Se lo sguardo che poniamo sulla maternità surrogata non si fa- cesse carico di tale domanda sul significato umano di questa prassi, negheremmo la dignità umana, che invece ci permette di trovare

risposte alle questioni qui sollevate. Proprio la storia del Novecento, con le sue pagine sanguinose, mostra come i crimini che l’u- manità ha subìto abbiano di fatto espresso il loro volto più cruento eliminando il fondamento della dignità dalla coesistenza umana.

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La Chiesa, attraverso il magistero, non si stanca di affermarlo: «Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamenta- le, che esprime un grande “sì” alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica, che riveste un’importanza sempre maggiore nel mondo di oggi». Lo ha recentemente ribadito anche papa Francesco nell’Amoris laetitia, al n. 54.

Allora diviene arduo, sotto il profilo giuridico prima ancora che morale, considerare la maternità surrogata una tecnica riproduttiva eterologa in caso di sterilità. Questo significherebbe svilire il valore della relazione che madre e figlio vivono nei nove mesi di gestazio- ne. La maternità surrogata non può nemmeno essere ridotta, come ritengono alcuni bioeticisti, alla semplice donazione di un organo, perché l’utero, diversamente da un rene o un polmone, esiste per contenere un’altra vita e non ha altra funzione se non quella. Ba- sterebbe poi una consultazione pubblica nei vari Paesi europei per capire che la maggioranza della popolazione è contraria alla pratica.

La parte più debole rimane il nascituro, che «va rispettato e trat- tato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della per- sona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita». A questo proposito, tra l’altro, non può non suscitare interrogativi il fatto che nel mondo ci siano circa 170 milioni di bambini abbandonati. Prendersi cura di loro attraverso l’a- dozione o l’affido, da sostenere come cultura politica, riporterebbe nei confini dell’umano il desiderio di diventare genitori e di cresce- re un figlio.

Fino a che punto, dunque, l’idea del legame liquido che fonda la surrogazione può condizionare le domande e gli appelli più pro- fondi della coscienza morale? Davvero vogliamo insegnare ai gio- vani che tutto può essere disponibile, soggetto a prezzo di mercato e controllato dagli interessi delle industrie biotecnologiche? Se si afferma culturalmente che nemmeno l’essere dei nascituri è indi- sponibile, dove fonderanno la propria libertà le giovani generazioni quando cresceranno? E quale tipo di rigetto avranno per la gene- razione che li ha resi disponibili?. Sono queste le domande a cui rispondere come civiltà umana. La libertà è sempre «per qualcuno», non è mai «da qualcosa»; non si realizza nello spazio infinito del moltiplicarsi dei bisogni-desideri, ma si costruisce nell’accoglienza del limite e della relazione con l’altro.

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