Non profit

I fundraiser chiamano. Il Governo risponde?

di Massimo Coen Cagli

Un gruppo di fundraiser italiani, tra i quali io, su iniziativa di Elena Zanella ha chiesto con una lettera a Bobba di aprire un tavolo di lavoro per dare vita anche in Italia ad una vera politica di fundraising.

In questo post voglio esprimere tre buone ragioni per rispondere positiviamente a questa nostra proposta.

L’idea è nata sulla scorta della costatazione che nella riforma del terzo settore non è  stato considerato per nulla il ruolo centrale della raccolta fondi, in senso professionale, per il terzo settore e per le altre organizzazioni che non hanno finalità di lucro, per quanto di natura pubblica, e che questa omissione può avere effetti gravi non per la sostenibilità delle organizzazioni ma piuttosto per la sostenibilità del welfare del nostro paese.

 

Peraltro il governo tra i circa 1000 contributi ricevuti su come migliorare il cosiddetto civil act ne ha ricevuto almeno uno dedicato proprio a questo tema, come frutto di un esteso lavoro di consultazione promosso dalla Scuola di Roma Fund-raising.it che ha coinvolto circa 400 fundraiser e dirigenti di organizzazioni non profit e di servizi della pubblica amministrazione che definiva misure e provvedimenti abbastanza facili da inserire nella riforma.

Questa richiesta non è una questione di bottega quindi e non riguarda interessi di una corporazione che peraltro non esiste, ma l’interesse di tutti. Ed è per questo che gli altri paesi moderni stanno investendo da anni sul fundraising. Non l’Italia.

Questa nostra richiesta, che ora attende una risposta del sottosegretario Bobba, è di vitale importanza per almeno tre motivi.

Primo. Il fundraising è una questione del Paese

Se il Terzo settore – come dice Renzi – in verità è il Primo evidentemente lo è perché la sua funzione nel nostro paese è essenziale per ridare forza al welfare. Non solo per quei servizi rivolti a fasce svantaggiate (come spesso si pensa) ma per ricostruire un sistema di benessere per tutta la comunità in modo sostenibile, visto che la finanza pubblica da sola non ce la fa e visto che questo obiettivo non può essere raggiunto in modo equo e democratico dalla economia di profitto. Ora il Primo/Terzo settore può assumersi questo carico (cosa che fa da più di cento anni) proprio perché nel suo sistema di sostenibilità ha il fundraising, ossia la capacità di catalizzare risorse volontarie e private su obiettivi di benessere sociale. Il fundraising quindi non è una questione del non profit ma una questione dei donatori individuali, delle aziende, delle fondazioni, dei servizi pubblici territoriali e centrali e dei loro lavoratori e dirigenti. E’ una questione del paese.

Secondo. Non sono costi ma investimenti sicuri

Il fundraising non serve per poter sostenere le organizzazioni non profit affinchè mettano una pezza alle falle del sistema pubblico. Per troppo tempo si è ragionato in questi termini, ma la crisi economica e la crisi del comparto della pubblica amministrazione ha messo in evidenza che non si tratta più di semplici falle bensì di un processo di affondamento inesorabile del welfare.

Ora quindi il fundraising è, allo stato attuale, non l’unica, ma una delle principali forme di economia per rendere sostenibile il welfare. Di conseguenza non può che essere oggetto di investimento da parte dello Stato, anche perché 1 euro investito in fundraising fa risparmiare almeno 100 euro allo Stato. Non si tratta quindi di fare un favore (per quanto sarebbe anche giustificabile) a chi si impegna per la tenuta sociale del paese, ma di fare un investimento strategico sul futuro del welfare.

Prevedere le agevolazioni fiscali per i donatori, gli incentivi alle donazioni, le facilitazioni all’uso di strumenti moderni di raccolta fondi non deve essere condizionato più di tanto dal ministero dell’economia, che deve stabilire se c’è copertura economica (come nel caso del 5 per 1000) ma al contrario dovrebbe essere promosso dal governo stesso. Voglio essere più chiaro: non è un beneficio che il ministero dell’economia deve concedere al non profit, bensì un beneficio che il non profit produce per il Ministero dell’economia. Invece stiamo ancora a combattere per ottenere ragionevoli sgravi sull’IVA per coloro che fanno devono fare acquisti e sostenere spese non per produrre lucro ma per produrre pezzi di welfare (come gli asili ricostruiti nelle zone terremotate con i soldi dei donatori dati al Corriere della Sera e alla Sette).

Terzo. Una legge non serve a nulla se non c’è una politica

Il processo di riforma legislativa del Terzo settore, che peraltro deve affrontare un iter molto rischioso (leggi delega al governo per poi fare decreti senza avere neanche una certezza della copertura finanziaria che lo stato dovrebbe garantire per fare tutto ciò….) non potrà risolvere radicalmente le tante questioni connesse al terzo settore alla sostenibilità del welfare sociale. Anche se fosse fatto al meglio. La vera soluzione per noi non è la riforma o un decreto  ma un politica sul fundraising e sulla sostenibilità del welfare (cosa che manca in Italia). Senza questa politica i centri di accoglienza per minori in difficoltà, le case alloggio per soggetti gravemente svantaggiati, la cooperazione allo sviluppo, la promozione e la fruizione della cultura, la tutela del paesaggio ma le stesse scuole pubbliche, le biblioteche comunali, gli ospedali e i servizi sociosanitari di base non possono avere futuro. Una politica vuol dire, oltre alle leggi, una azione integrata di comunicazione, sensibilizzazione, incentivazione, controllo di qualità, partnership, agevolazioni fiscali, formazione……. che porti il nostro paese a poter donare e investire socialmente in modo più libero e qualitativo. Senza questa politica i donatori scapperanno via o comunque non aumenteranno; le aziende non riprenderanno a rendere disponibili risorse; l’azione filantropica delle Fondazioni non potrà mai produrre effetti e impatti positivi e irreversibili.

 

Si tratta quindi di far capire al governo e a chi ci amministra che il fundraising non è un grande gioco per ragazzi buoni e volenterosi e non è neanche il modo con il quale lo stato tappa le falle del sistema grazie alla generosità dei cittadini, ma è lo strumento principale di una nuova economia sociale, civile  o di comunità senza la quale il nostro paese non può avere un futuro sostenibile. E che i fundraiser sono dei professionisti e non lo fanno per hobby.

Certo, questo vuol dire che anche le organizzazioni non profit devono comprendere tutto ciò e investire più seriamente sul fundraising e che i fundraiser devono alzare l’asticella della loro sfida professionale.

De Rita, un po’ di tempo fa, chiese al non profit se era pronto per questa sfida (maggiore qualità, controllo e innovazione). E Bobba ha affermato a Vita che “…da oggi in poi il Terzo settore non può più vivere di rendita, ma deve mettersi nelle condizioni di proporre nuovi percorsi e nuovi luoghi in cui operare”. Direi che è altrettanto lecito chiedersi se lo Stato e il Governo siano pronti a questa sfida e se siano in grado di dare vita coraggiosamente a investimenti per fare nuovi percorsi e andare in nuovi luoghi. Saremmo contenti di ricevere una risposta concreta a questa domanda. Non per noi, ma per il paese.

 

Questo post, data l’importanza dell’argomento, esce in contemporanea anche sul blog www.blogfundraising.it

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