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I fischi a Donnarumma? Un gesto etico

Il portiere della nazionale dopo il burrascoso trasferimento dal Milan al Psg è stato, durante l'ultima partita della nazionale a San Siro, massacrato di fischi. Gesto che è stato duramente criticato. Per il ct Mancini non era il momento giusto perché indossava la maglia azzurra dell'Italia. Ma è davvero così? Ne abbiamo parlato con Vittorio Pelligra, economista dell'università di Cagliari

di Lorenzo Maria Alvaro

Lacrime, qualche momento di confusione. Rimane questo negli occhi dei tifosi italiani dopo la partita della nazionale persa contro la Spagna. Nelle orecchie del portiere Gianluigi Donnarumma invece rimangono i fischi. A San Siro è andata in scena una durissima contestazione a tinte rossonere al portiere che, prodotto più talentuoso della cantera milanista, ha lasciato in malo modo (poca chiarezza sulle proprie intenzioni, rifiuto del rinnovo, passaggio a parametro zero ad un altro club) la società meneghina che lo aveva cresciuto. Aggravante agli occhi dei tifosi l'unico movente del giocatore: i soldi.


La dura presa di posizione dei tifosi del Milan è stato ostracizzato e criticato severamente, in particolare dalla stampa. Se Mentana addirittura ha paragonato, con un parallelismo in realtà abbastanza spericolato, quei fischi ai “buu” razzisti, da tutti i media, cartacei e non, sono piovute asprissime critiche sul gesto. Sostanzialmente il problema è che Donnarumma in quel momento indossava la maglia della nazionale Italiana. Quindi in quel momento era un simbolo che non si poteva fischiare. In realtà non è la prima volta che capita. Leonardo Bonucci addirittura, nella sua andata e ritorno tra Milan e Juventus è stato fischiato in maglia azzurra sia allo Stadium dai tifosi bianconeri che a San Siro da quelli milanisti. Ma nessuno ebbe nulla da dire al riguardo. Rimane il fatto che il dibattito pubblico introduce nel perimetro della discussione un elemento etico e valoriale, con questa distinzione tra club e rappresentativa nazionale. Eppure questo elemento morale, o moralistico, nel mondo del calcio fa a pugni con un mantra: il calcio è un business bellezza. Come dirimere il problema? Abbiamo provato a chiederlo all'economista dell'Università di Cagliari, Vittorio Pelligra.


Cosa pensa dei fischi a Donnarumma?
Che sono tristi ma coerenti, perfino legittimi, da un certo punto di vista.. Il giocatore all'interno delle valutazioni della sua scelta di cambiare squadra avrebbe dovuto considerarle come una probabilità. Non c'è dubbio che ci sia un punto di coerenza. Se vogliamo applicare un codice morale o valoriale di un certo tipo, dobbiamo farlo sempre e comunque. Se stigmatizziamo l'eccessiva predominanza delle motivazioni economiche di un giocatore lo faremo sempre, che giochi in un club o in nazionale. Allo stesso modo se invece riteniamo che certi ambiti, come l'attaccamento alla maglia, ad una certa comunità e ad un club, siano trascurabili e ininfluenti a fronte del tema economico, dobbiamo farlo sempre. Non si può cambiare il punto di vista a seconda della partita o della situazione. Allo stesso modo, sempre per coerenza, bisogna chiedersi perché un giocatore decide di cambiare maglia.

Perchè?
Ci sono tanti motivi differenti. Motivazioni economiche, professionali, di ambientamento. Tutte legittime direi. Però nel momento in cui io giocatore accetto una certa logica accetto anche le conseguenza di quella logica. Se vado a cercare, fuori dalla lealtà alla maglia, una soddisfazione remunerativa maggiore, la contestazione è un costo da pagare. Senza infigimenti. Sennò sommiamo mele a pere. Confondiamo codici comportamentali differenti: quello dell'onore e dell'attaccamento a quello del profitto. Senza voler entrare in un ambito morale è evidente che il problema nasce quando queste due posizioni entrano in conflitto. Quando cioè il tifoso è convinto che il giocatore dovrebbe comportarsi in un certo modo e il giocatore invece è convinto che il suo mondo sia regolato da un altro codice, quello del business. Bisogna essere chiari: il calcio oggi è un grande mercato in cui rarissimamente si trova spazio per altri valori.

Questa però sembra suggerire una miopia dei tifosi…
Al contrario. La miopia sta in chi immagina un modello in cui i tifosi sono mero accessorio, senza rendersi conto che invece sono il proprio core business. Non solo. Mi chiedo: come si fa ad affermare che nel calcio l'unico valore è il denaro e poi sostenere la distinzione e differenza tra club e nazionale, adducendo motivi valoriali, etici e morali? E non è solo una contraddizone è proprio un ragionamento insensato: dimentico la mia principale fonte di profitto mentre affermo che il profitto è l'unica cosa che conta. Potremmo dire che i fischi dei tifosi siano un gesto etico, nella misura in cui ricordano agli adetti ai lavori questo disequilibrio.

A proposito di modelli, in qualche modo questo scontro di posizioni e di valori del caso Donnarumma somiglia a quello che si è generato sul caso Super League…
Certo. Fuor di metafora questo è quello che capita nella società schiava della logica meritocratica. Per cui io mi merito di essere il migliore e quindi gli altri si meritano di essere i peggiori. Per cui se io posso competere ad un certo livello perché dovrei abbassarmi ad incontrare chi non è in grado di fare lo stesso? Se riesco a spuntare certi margini di profitto sui diritti televisivi, perché dovrei condividere questo privilegio? Quindi mi faccio una mia lega d'elite. All'interno di questa logica è assolutamente condivisibile questa idea. Ma dobbiamo chiederci per chi le squadre giochino a calcio. Dobbiamo decidere chi sia il fruitore ultimo di questo spettacolo: i proprietari, gli azionisti, i calciatori o il pubblico? Il punto è tutto qui. Il rischio è costruire un sistema totalmente autoreferenziale che poi, come mostra la vicenda della Super League, implode. Posso fare un esempio?

Certo…
Qualche tempo fa è uscita l'indiscrezione legata ai Football Leaks, che Neymar, nel suo contratto con il PSG, prenda 350mila euro per andare a salutare i tifosi dopo i match. Non è l'unico, anche altri giocatori hanno clausole simili. Il motivo è "creare comunione fra il pubblico e i giocatori". La cifra è sottoposta alla denominazione "premio di etica" nei contratti. Mi chiedo: cosa penserebbe una persona normale di un amico che va a salutarlo e ringraziarlo per la sua lealtà solo perché è pagato per farlo? Ci rendiamo conto che è un'aberrazione? Una modalità di relazione deviata. Questo è quello che è diventato il calcio oggi. I fischi a Donnarumma sono una conseguenza della dimensione affaristica e di profitto che quel mondo sta vivendo. E Donnarumma, se decide come ha fatto di seguire quel modello, dovrebbe saperlo e accettarlo.

Uscendo dal mondo calcistico questa situazione ha assonanze con il capitalismo finanziario occidentale tutto…
Il calcio è diventato un'icona dell'anomalia del capitalismo moderno. Mette in luce come sia possibile creare enorme ricchezza distruggendo valore. Anche se tifosi e appassionati spendono, si abbonano e acquistano prodotti vari, queste società continuano ad essere in perdita, a produrre debito e quindi a sottrarre ricchezza alle comunità nelle quali operano e che per altro rappresentano. Non dimentichiamoci che le società calcistiche sono uniche perché rappresentano i territori in cui operano: c'è uno scollamento profondo tra quello che è la natura finanziaria e la valenza simbolica di questi club. In qualche modo questo ha anche a che fare con le grandi società economiche. In qualche modo questo ha anche a che fare con le grandi imprese che, volenti o nolenti operano all'interno di comunità di persone. Lo stiamo vedendo nelle crisi economiche e in molte delle vertenze sindacali attuali. Abbiamo imprese sane e che funzionano bene ma che se ne vanno dai territori che per anni hanno rappresentato il motore delle loro attività. Come il caso di Campi Bisenzio ad esempio. Che cosa muove le scelte degli amministratori delegati? Il puro profitto? Non basta perché nel lungo periodo questa logica si dimostra perdente. Anche e soprattutto economicamente. Se questo vale per tutte le imprese vale ancora di più per quelle esperienze fortemente identitarie come le squadre di calcio per cui la fidelizzazione dei tifosi è il core business. Quando la gente capisce che non c'è autenticità si disaffeziona e questo diventa un enorme problema, anche economico.

Tornando al caso Donnarumma c'è poi un altro tema. Nella valutazione della scelta di cambiare maglia, a parte il tema stipendio, non sono stati valutati una serie di ambiti che però hanno in qualche modo un risvolto economico…
Sì, quello che le imprese chiamano engagement e loyalty. Il fatto ad esempio di essere valorizzato o meno, stimato o meno, non solo dai tifosi ma dal mercato tutto. Per capirci Donnarumma oggi non rappresenta probabilmente un modello per i bambini, e quindi non è più appetibile per fare pubblicità di prodotti dedicati ai più piccoli. Pensiamo a Totti: oggi è un modello positivo per le aziende. Ecco perché fa decine di pubblicità. Il motivo è che ha rinunciato ad un interesse di breve periodo per privilegiare, come lo chiamano gli economisti, l'interesse personale illuminato di lungo periodo. Rinunci a qualcosa oggi come investimento, perché sai che negli anni questa rinuncia in realtà mi permetterà di guadagnare di più. Ogni bandiera calcistica lo dimostra, da Maldini a Zanetti.

E questo lo possiamo vedere bene anche nell'economia tradizionale…
Certo, pensiamo ai casi Ferrero o Brunello Cucinelli. In soldoni è la differenza tra gli imprenditori e i prenditori. Donnarumma è un prenditore: colui che vede un opportunità e la coglie. Senza farne questioni etiche. Quello che bisogna capire è se questo paghi sul lungo periodo. Gli imprenditori invece sono quelli capaci non solo di estrarre valore ma di distribuirlo. Quindi quelli che, certamente traggono ricchezza dalle opportunità che si presentano ma che giocano anche un gioco a somma positiva, facendo guadagnare tutti gli stakeholder: i lavoratori, la comunità, il territorio, i fornitori. Nel caso del calcio, i tifosi, il club e la squadra.

Foto di apertura: Avalon/sintesi

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