Cultura
I fiori di Sanremo, il simbolo di una umanità che non si arrende
Sul palco la consegna dei tradizionali mazzi di fiori ha vissuto due diverse evoluzioni. Una nel gesto in sé, che prevedeva inizialmente un carrellino self service, accantonato nel corso della kermesse. L'altra sul tema gender, per cui col passare delle serate i fiori sono andati anche agli uomini
Sanremo è Sanremo per quanto lo si debba e voglia criticare: come tutti gli eventi tradizional popolare, pur restando uguale a se stesso, ogni anno ci dice qualcosa in più su di noi, sui costumi italiani, sull’umore e sul sentiment della coesione nazionale.
Quest’anno con i Maneskin vince una bella canzone di rottura, tosta nei suoni, nelle parole e nei modi, al limite di una band di heavy metal, e con consenso stranamente quasi unanime della critica.
Siamo lontani anni luce dai festival vinti dalle canzoni d’amore eppure rispetto agli anni del recente passato è indubbio che i testi romantici erano molto più presenti sul palco, sono proprio i Maneskin rompono con il resto del mood di Sanremo: non c’era l’aggressività spiattellata dal trapper Gioel e neanche gli interrogativi di Mahmood, la denuncia di Daniele Silvestri. Finanche le provocazioni di Achille Lauro ora erano istituzionalizzate, divenute “quadri” perfettamente dentro la kermesse.
Quest’anno si avvertiva dal tono di tante canzoni, dai Coma_Cose ad Ermal Meta, passando da Noemi a Colspesce, una voglia di conservare speranza, come quando una guerra sta per finire e si vuol pensare al meglio o non si vuol pensare affatto; nell’accoglienza calda riservata a Bertè, Berti, Vanoni abbiamo respirato un desiderio di riconciliazione tra le generazioni, di rispetto di donne di valore dall’aspetto inesorabilmente cadente ma con una voce ancora possente, mentre negli scorsi anni il conflitto generazionale pesava in moltissime canzoni di denuncia che hanno vinto sul palco e nei social.
Ma la vera novità della settantunesima edizione sono stati i fiori. I fiori di Sanremo hanno detto tutto ed anche di più del 2021.
Le regole per stabilire “a chi darli” e “come darli” sono lo specchio di questa transizione culturale e della riflessione sulla pandemia in corso.
Partiamo dal “come”: in cinque giorni siamo passati dalla prima serata, in cui il gesto che si ripeteva era una consegna dei fiori serviti su un carrellino “da colazione in camera”, affinché il presentatore non toccasse nulla che poi andasse nelle mani di un’altra persona, in rispetto alle più restringenti regole anticovid, all’ultima serata (era vigente ancora lo stesso DPCM) in cui Amadeus consegnava i fiori direttamente dalle sue mani alle mani dell’altra o altro e senza più neanche i guanti, semplicemente rassicurando con un sorriso che ha avuto esito del tampone un’ora prima. Questa evoluzione è un quadro plastico dell’imbarazzo e della libertà di coscienza di dover scegliere di continuo se agire nella massima sicurezza post-umana o nella massima umanità possibile in sicurezza.
Per fortuna l’evoluzione del festival è stata positiva e progressiva verso l’umanizzazione del gesto del dare i fiori. Lungo le cinque serate è stato chiaro a tutti che non porgere dei fiori ma lasciare che qualcuno se li prendesse da solo non era umanamente sostenibile e così Sanremo ci ha fatto fare un nuovo ragionamento su di noi: cosa è umanamente sostenibile per garantire la sicurezza? Non basta la sicurezza senza umanità per dire che una restrizione è giusta: se una norma comportamentale della distanza garantisce la sicurezza massima ma uccide la fraternità e la sincerità dei gesti non è umanamente sostenibile e va rigettata. Sanremo aveva provato a settarsi sul massimo del conformismo ma ci ha messo solo cinque giorni per abbandonarlo.
La seconda regola saltata è stata “a chi dare i fiori”? Era chiaro a tutti il pubblico ed ai cantanti in gara che gli organizzatori avevano pensato ad una consegna solo per le cantanti e le ospiti e non avevano preso in considerazione tutta la riflessione in atto sulla filosofia del gender, nonostante la numerosa presenza di cantanti uomini vestiti visibilmente da Drag queen o propriamente da donna, nonostante l’atteggiamento marcatamente bisex di alcune cantanti, eppure Sanremo non ha ceduto ed è stato bellissimo.
Da quando, nelle prime consegne, si è creato l’imbarazzo se i fiori dovessero andare all’uomo o alla donna di un gruppo musicale, Sanremo non ha cambiato schema, ha continuato a portare un solo mazzo di fiori per ogni gruppo e con lo stesso sorriso ha consegnato a chi voleva prenderseli oppure ha consegnato ad una che poi ha passato ad uno e viceversa, Amadeus non è entrato nel sistema normativo “fiori per tutti” ecologicamente, organizzativamente e tempisticamente insostenibile, ha continuato a portare un solo mazzo di fiori fino all’ultima serata, ha capito che non era affatto scontato che dovessero prenderlo solo le donne presenti sul palco ed ha lasciato fare a loro, senza più un programma stabilito. L’ultima serata ha poi annunciato una sorta di Brindisi finale, con un “fiori per tutti” cedendo evidentemente alla pressione mediatica.
Questo dibattito sulla femminilità dei fiori scatenato dal Fetival non va chiuso tra le analisi dei trend topic, va tenuto ancora aperto. Fino al quarto giorno Sanremo ha tenuto il punto fermo: un solo mazzo di fiori, ma non ha cambiato la sostanza: i fiori sono l’animo femminile del mondo. L’animo femminile è uno, chi vuole lo assume , questo non rende illimitata la regola tanto da dover uscire con una mossa egalitaria di “fiori per tutti”, rende aperta la possibilità di poter esprimere la femminilità del mondo anche agli uomini, dentro la sostenibilità di un gesto che non diviene pretesa di norma, ma semplice apertura culturale.
Sanremo 2021 ha dimostrato che la cultura tradizionale popolare può essere capace di tenere in sé le contraddizioni senza doverle risolverle a tutti i costi, senza doversi piegare ad un mainstreaming del momento.
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