Mondo
I favelados di Rio: le Olimpiadi ve le raccontiamo noi
Negli slum della megalopoli che si appresta ad ospitare i Giochi è scoppiato il boom del giornalismo partecipativo: «Non fidatevi dei grandi media»
Pochi dubbi che il brand più conosciuto del Brasile siano le favelas. A Rio de Janeiro ce ne sono oltre 700: dal Complexo da Maré alla gigantesca Rocinha passando dalla Cidade De Deus, i loro nomi sono quasi più noti di quelli degli dei del calcio verdeoro.
Ma sono anche e soprattutto nomi che fanno da cassa di risonanza al solito ritornello che alla vigilia delle Olimpiadi è andato in onda sui media mainstreaming locali e internazionali: allarme violenza e boom criminalità. Eppure proprio Rio oltre a essere la capitale a cinque cerchi 2016, sta diventando un caso scuola di un nuovo modo di raccontare: quello del giornalismo partecipativo che ormai ha conquistato praticamente tutte le favelas della “città meravigliosa” così amata e cantata da Tom Jobim. Cambiando il punto di vista del racconto, cambia l’informazione stessa.
Il caso più recente è stato una sparatoria nella favela di Rocinha. Giornali e televisioni si sono concentrati sul panico scoppiato fra gli studenti della vicina università. Nessuno che invece abbia messo il naso in quella bidonville da 200mila abitanti, teatro della carneficina. Nessuno tranne i ragazzi del Papo Reto, un collettivo di comunicazione indipendente composto da giovani delle favelas Alemão e Penha, che hanno decostruito l’articolo pubblicato dal Globo e ne hanno scritto un altro raccontando i fatti visti da dentro la favela. Un pezzo che online è stato un piccolo caso editoriale. Una dinamica simile sta accadendo nella zona di Cracolândia, dentro il complesso delle favelas di Maré. Degrado e tossici fuori da ogni controllo. Ecco cos’è per il brasiliano medio questo quartiere. Uno stereotipo semplicista che Thais Cavalcante, una giornalista comu- nitaria di 21 anni che abita nella Maré ed è diventata una piccola star della rete, sta contribuendo a smontare mattone dopo mattone. La storia di Thais si mescola con quella della favela stessa. «Esiste un pregiudizio enorme contro la favela che ci è imposto ogni giorno dai grandi media. Io stessa non avevo idea di quanto mi identificassi con Maré finché ho iniziato a scrivere le storie della mia gente, dei “marenhense”, come dicono qui ». Thais racconta che non le piaceva vivere in quel posto, aveva paura della violenza, non riusciva ad andare dal suo fidanzato, uscire di casa. Si vergognava quando le chiede- vano dove abitasse. Tutto è cambiato il giorno in cui si è iscritta a un corso gratuito di comunicazione comunitaria offerto da un’organizzazione non governativa. «Avevo 16 anni, ho seguito i consigli di mia sorella, è andata come meglio non poteva». Dopo il corso ecco un desk al giornale O Cidadão, uno dei più antichi di Maré.
Thais oggi scrive anche per il portale Rio On Watch e per il quotidiano inglese The Guardian. «Una storia incredibile. Un giornalista del Guardian mi ha contattato perché voleva conoscere Maré e poco tempo dopo mi ha invitato a collaborare con il giornale. Così adesso riesco a fare arrivare la voce della favela dall’altra parte del mondo», spiega.
Secondo l’ultima classifica di Reporters sans frontières (Rsf ) — termometro della libertà di stampa nel mondo — il Brasile si trova in 104esima posizione. A Rio le principali testate di informazione sono di proprietà del gruppo Globo, il più grande monopolio dei media di tutta l’America Latina. Nella città del Cristo Redentore contrastare questo moloch vuole dire soprattutto lavorare per abbattere la stigmatizzazione delle favelas e dei favelados (Rio è la città al mondo con la più alta percentuale di abitanti residenti negli slum). «Chi vive qui per la gran- de stampa non è un cittadino è un delinquente o nella migliore delle ipotesi un disgraziato», dice Theresa Williamson, chief editor di Rio On Watch. «Grazie all’accessibilità e al web, le voci delle favelas influenzeranno sempre più i media tradizionali ed il pubblico locale, nazionale ed internazionale», spiega Theresa. Secondo i dati pubblicati dalla organizzazione non governativa Observatorio de Favelas, attualmente esistono circa 104 media di informazione partecipata. Dei 73 che hanno partecipato alla ricerca, 39 sono online (blog, siti, web-Tv, web-radio). Le tipologie di media più comuni sono i blog (23), i giornali stampati (18, tutti gratuiti)) e le radio (12). Dei 18 magazine, 11 hanno anche la versione online. Gran parte dei media online conta fra mille e 10 mila accessi mensili, però ci sono anche eccezioni come l’Agência de Notícias da Favela ed il portale Rocinha, che toccano quota 60mila e 900mila click. Dei 18 giornali comunitari, 13 hanno una tiratura mensile fra 1000 e 10mila copie, 3 superano le 20mila e uno arriva a 50mila al mese. Gran parte di loro sopravvive grazie ai bandi pubblici e privati, donazioni, abbonamenti, annunci pubblicitari e tanto volontariato. Nei 73 media che hanno risposto alla ricerca, lavorano 631 persone, di cui 91 (14,4%) di loro sono professionisti con formazione tecnica nel settore della comunicazione. Tra questi, 36 (39%) sono pagati. I professionisti senza formazione in comunicazione sono 415 (46%), di cui solo 76 (18%) riceve un stipendio.
«Documentare, stimolare e informare per riuscire a portare politiche pubbliche partecipate ed efficaci a so- stegno delle favelas di Rio», riassume Theresa, riferendosi alle attività di Rio On Watch ideato da lei e altri colleghi dopo il successo del corso Uso Estratégico das Míd- ias Sociais, promosso dall’organizzazione non governativa Comunidades Catalisadoras (ComCat). Dopo aver pubblicato una serie di video realizzati dai volontari di ComCat in cui denunciavano gli sgomberi forzati di alcune favelas, è stata contattata dalla Associated Press, la più grande agenzia notizie al mondo. Oggi con tanti articoli tradotti in inglesi, il sito è diventato una fonte di informazione per la stampa estera. In questi sei anni di vita, Rio OnWatch ha pubblicato articoli firmati da 408 giornalisti di base. Oltre al piccolo team fisso di 5 persone retribuite (più un forfait che un vero stipendio, secondo Theresa), possono contare su un nutrito gruppo di giornalisti comunitari e osservatori internazionali (circa 20 stranieri de- dicano una ventina di ore settimanali per osservare e raccontate le realtà di Rio), e poi traduttori e ricercatori. Tutti, tranne i giornalisti sono volontari e collaborano a titolo gratuito in solidarietà con il progetto. Anche tenendo il profilo basso, però, costa mantenere questo progetto. Per questo sono vi- tali la rete internazionale di donatori, le campagne di crowdfunding — e gli incassi delle lezioni che Theresa ormai tiene in alcune università statunitensi.
«Vorrei che in ogni periferia al mondo ci fosse un giornalista comunitario», interviene André Fernandes, da 15 anni direttore dell’Agência Notícias da Favela (Anf ), e responsabile del mensile A Voz da Favela. Mantenere in piedi la struttura non è facile. La Anf ha creato una rete buona di sostenitori, organizza corsi di comunicazio- ne comunitaria e partecipa a bandi pubblici e privati: ha appena vinto un bando del ministero della Cultura per finanziare proprio un corso di comunicazione comunitaria.
Fare giornalismo nello stesso luogo dove è attiva anche la criminalità organizzata non è però facile. I problemi e i pericoli esistono. Non è uno scherzo. «Alcuni dicono che siamo conniventi con i criminali, ma io dico che siamo conviventi, perché dobbia- mo convivere con loro, così come tutti i cittadini che nella favela ci vivono», ragiona André, «però la più grande difficoltà viene dalla polizia che non vuole che gli abitanti delle favelas abbiano voce per denunciare le loro malefatte e il loro ricorso al grilletto troppo “facile”». Secondo i dati dall’Instituto de Segurança Pública di Rio de Janeiro (Isp), nel 2015, 644 persone sono morte in confronti con la polizia, e di queste 497 (77,2%) erano di pelle scura. I numeri riflettono una tendenza dram- matica: lo “sterminio” per parte dalla polizia della popolazione nera che in grande maggioranza popola i quartieri poveri. Da queste parti spesso il giornalismo partecipato si dimostra vitale. Nel senso proprio del termine.
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