Sono “ebrei-afro”, dunque di tradizione abramitica, anche se vengono dall’Etiopia. Chiamati, comunemente, falasha, disdegnano questo appellativo perché in aramaico, la lingua di Gesù, ha un’accezione fortemente negativa, significando “esiliato” o “straniero”. Preferiscono invece sentirsi dire che sono “Beta Israel” (ቤተ፡ እስራኤል o Bēta ‘Isrā’ēl in lingua ge’ez; ביתא ישראל in ebraico). Letteralmente, significa “Casa di Israele”, un’espressione che la dice lunga sul forte senso di appartenenza al popolo ebraico. Alcuni rabbini ritengono che essi siano discendenti della tribù perduta di Dan, quinto figlio di Giacobbe avuto da Bila , ancella di Rachele. Secondo altri studiosi, questa peculiare etnia deriverebbe, storicamente, dalla fusione tra le popolazioni africane e quegli ebrei fuggiti dal proprio Paese in Egitto ai tempi della distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. o in successive migrazioni della diaspora ebraica. La tradizione ufficiale, invece, fa risalire la loro primogenitura all’unione tra il re Salomone e la regina di Saba che diedero alla luce Menelik. Sta di fatto che, proprio per questa ragione, i falasha sono sempre stati visti con sospetto dai fautori dell’ortodossia ebraica, in quanto l’appartenenza al popolo eletto avviene in forma matrilineare, essendo la donna colei che trasmette il sangue dei padri. Ma leggendo la Bibbia, è evidente che la Regina di Saba non fosse ebrea, pertanto, in teoria, sostengono i rigoristi, neanche i discendenti africani dovrebbero esserlo. Dunque, da questo punto di vista, vi sarebbe stata una forzatura, da parte dei falasha, nel rivendicare la purezza delle loro origini, in contrasto con il pensiero inflessibile di certe scuole rabbiniche. Una cosa è certa: al di là di tutte queste disquisizioni, siamo di fronte ad un classico esempio di diaspora in terra africana. Il dato religioso che rende peculiare la loro identità, infatti, è rappresentato dal fatto che i falasha siano sempre riusciti a mantenere la fede ebraica, anche dopo la cristianizzazione del regno di Aksum, nel quarto secolo d.C., mantenendo a lungo la loro autonomia socio-politica. In seguito, purtroppo, subirono non poche persecuzioni e furono addirittura costretti a trovare riparo nei pressi del Lago Tana, nell’Etiopia settentrionale e lì riuscirono a resistere a diversi tentativi di sterminio tra il 15° e il17°.
Il loro canone biblico è nella lingua etiope ge’ez, dunque non in ebraico. Inoltre, anche se non seguono rigorosamente le prescrizioni talmudiche (quelle legate alla trasmissione e discussione orale della Torah), aderiscono a tutte le consuetudini legate alla tradizione ebraica, che sono peraltro seguite in Etiopia anche dai cristiani copti, che praticano gli stessi loro digiuni e hanno abitudini alimentari simili a quelle dei falasha. Per fuggire dalle difficoltà economiche e politiche, nel corso della seconda metà del Novecento, ai tempi della “guerra fredda” il governo di Tel Aviv li fece trasferire in massa (a metà degli anni Ottanta) dall’Africa, quando gli ebrei russi erano ancora costretti a stare al di là della Cortina di Ferro. Comunque, sebbene fossero ebrei in diaspora, con le carte in regola per essere integrati nel giovane Stato d’Israele, già a partire dagli anni Novanta vennero alla ribalta della cronaca internazionale per gravi episodi di razzismo nei loro confronti. D’allora sono state numerosissime le discriminazioni a cui questo “resto africano d’Israele” è stato sottoposto: a scuola, nel lavoro, nei luogi pubblici. Ghettizzati nelle città di Rehovot, Kiryat Malachi, Beer Sheva e Haifa, oggi, 50 mila dei 130 mila falasha residenti in Israele vivono di assistenza sociale, in gravi condizioni d’indigenza. Come se non bastasse, sono molti i casi di proprietari che si rifiutano di affittare i loro beni immobili a questi ebrei dalla pelle nera, giudicandoli troppo rumorosi, poco attenti all’igiene personale e domestica. Uno dei più recenti episodi di esclusione sociale, che ha fatto davvero clamore, riguarda Pnina Tamano-Shata, primo membro della Knesset di origine etiope, a cui è stato rifiutato di donare il sangue in un’autoemoteca del Magen David Adom, la Croce Rossa israeliana. La motivazione ufficiale, stando a quanto riferito dagli stessi infermieri ”, con una certa altezzosità, è che “la signora in questione avrebbe un tipo molto particolare di sangue: ebreo-etiope”. Dunque, vi sarebbe una sorta di rocambolesca incompatibilità sanguinea con quei pazienti, anch’essi ebrei, che provengono da altre aree geografiche. Naturalmente, le proteste dei falasha non si sono lasciate attendere e molti parlamentari della Knesset hanno espresso solidarietà nei confronti della deputata, scioccati dalle menzogne messe in giro da certa propaganda segregazionista. Fonti giornalistiche ritengono che l’atto discriminatorio sia legato ad un controverso regolamento del ministero della Salute, secondo cui sono tassativamente proibite le donazioni di sangue da persone a presunto rischio di virus Hiv. Oltre agli israeliani residenti in Inghilterra, Irlanda o Portogallo per lunghi periodi durante l’epidemia della Mucca Pazza, o a chiunque sia appena rientrato da viaggi nell’Africa centrale, nel sud-est asiatico e nei Caraibi e agli omosessuali, nella lista degli untori vi sarebbero anche i nativi dell’Africa, dunque i falasha.
Secondo il Professor Steven Kaplan, docente di religione comparata e studi sull’Africa presso la Hebrew University di Gerusalemme, “i falasha vivono un atipico status di rifugiati nel proprio Paese, come in un limbo”. Comunque, questo razzismo contro i discendenti della regina di Saba non fa onore allo Stato ebraico, soprattutto se si considera che il governo di Tel Aviv ha messo fine, il 28 agosto dello scorso anno, all’ultima campagna di rimpatrio degli ebrei d’Etiopia avviata nel 2010. Un provvedimento da cui si evince l’inasprimento della politica israeliana sull’immigrazione. Per quarant’anni, grazie soprattutto alle generose donazioni delle comunità ebraiche statunitensi, i campi di transito raggruppati nella città di Gondar, nell’Etiopia Settentrionale, hanno rappresentato il canale di accesso per tornare alla terra dei Patriarchi. Si chiude dunque un’epoca, quella della migrazione di massa dei falasha. L’ufficio del primo ministro israeliano ha fatto sapere che altre possibili candidature saranno esaminate, da ora in poi, caso per caso e che “il ricongiungimento delle famiglie e le specifiche questioni umanitarie” saranno valutate in sede di commissione. Le autorità israeliane vorrebbero così orientare le risorse finanziarie destinate agli esuli per migliorare le condizioni di vita di quei falasha che già vivono in Israele. Una spiegazione, francamente, poco convincente, che nasconde la discriminazione razziale di alcune frange della società israeliana, nei confronti di uomini e donne, figli di un Dio minore.
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