Famiglia

I dubbi e i timori dei genitori di un figlio transgender

GenerAzione D è un’associazione anonima formata da genitori di preadolescenti e adolescenti che si identificano come transgender: uno tsunami anche per le famiglie. Come accompagnare i propri figli? Chiamarli con il nome d'elezione, acconsentire al trattamento che sospende la pubertà o mantenere un atteggiamento di "vigile attesa"? Per quanto tempo? «Ci accusano di essere persone transfobiche, ma spesso vediamo un approccio eccessivamente semplificatorio», dicono. In questa intervista spiegano perché

di Sabina Pignataro

«Da oggi non voglio più essere quello che sono stato, non voglio più chiamarmi con un nome da ragazzo: mamma, chiamami al femminile». Quando una famiglia si sente dire dal proprio figlio (o al contrario, dalla propria figlia) una frase del genere, è uno choc. I figli hanno navigato sui social e sul web per settimane, si sono documentati e informati, ci hanno riflettuto. Per i genitori, spesso, queste parole hanno la violenza del temporale inatteso. Arrancano, si sentono smarriti, persi in una selva di nomi, categorie, etichette.

Un anno e mezzo fa un centinaio di mamme e papà, genitori di preadolescenti e adolescenti che si sono identificati come transgender, hanno dato via ad un’associazione che si chiama GenerAzione D. L’obiettivo? Sostenersi reciprocamente dinanzi al cambiamento che investe la vita dei loro figli e delle loro famiglie, condividere esperienze, animare il dibattito. Li abbiamo intervistati.

Pur nel caleidoscopio delle diverse esperienze dalle quali ognuno proviene, che cosa vi unisce?

Secondo noi le istanze manifestate dagli adolescenti transgender vengono accolte, da parte di alcuni degli adulti del mondo della scuola e da parte di alcuni terapeuti in modo acritico, banalizzante ed eccessivamente semplificatorio.

Iniziamo dalla scuola. A molti di voi è capitato che la figlia – o il figlio –(comunque minorenni) manifestasse proprio a scuola il desiderio di essere chiamata/o con un nome diverso dai professori, dai compagni, nelle verifiche e nelle interrogazioni e che la scuola abbia iniziato a farlo senza confrontarsi o informare mamma e papà. «La scuola ci ha pugnalati, cambiando il nome a nostra figlia senza dircelo», ha detto una madre. Ci raccontereste questa esperienza?

Mia figlia ha parlato del suo sentirsi maschio prima a scuola che con noi genitori. A casa lo ha detto solo un paio di mesi dopo, ma nel frattempo i professori la chiamavano già con il nome d’elezione, al maschile. Quando alle pagelle di fine anno ne siamo venuti a conoscenza, ci siamo sentiti pugnalati alle spalle. Pensiamo sia molto grave che gli adulti della scuola, senza informare la famiglia né premunirsi di accertare se la ragazza sia seguita da uno psicologo o sia affetta da qualche disturbo incompatibile con una eventuale transizione sociale, abbiano deciso di assecondare la sua richiesta, senza valutare le eventuali conseguenze di tale atto.

In effetti, non esiste una norma che vieti ai professori di accogliere le richieste dei ragazzi, così come non esiste una regola che lo promuova. I docenti, spesso a loro volta impreparati, accolgono la richiesta dell’allievo/a, per mantenere un’alleanza con lui o con lei. Cosa vorreste invece voi?

La prima regola che non andrebbe mai trascurata è che la scuola collabori con la famiglia per il bene del ragazzo o della ragazza. I docenti e il personale scolastico dovrebbero ricevere un’informazione accurata sulla tematica della disforia di genere e delle indicazioni chiare su come relazionarsi ai giovani che manifestano tale disagio. È fondamentale che gli adulti di riferimento di questi ragazzi in crisi di identità siano consapevoli che confermare l’identità percepita dal giovane non è un intervento neutro rispetto al loro percorso e può influire negativamente sulla naturale risoluzione della disforia di genere durante la crescita.

Parliamo ora dei professionisti con i quali vi siete interfacciati. Molti di voi raccontano di avere incontrato terapeuti che hanno adottato un approccio psicologico non di tipo “esplorativo”, bensì “affermativo”. Cosa significa?

Molti degli psicologi non indagano le cause del malessere, ma si limitano ad accompagnare i nostri figli (il paziente) nel percorso di transizione, assecondandone le aspirazioni di cambiamento. Questo orientamento ci appare troppo superficiale nei confronti del malessere esperito dai nostri figli. Una di noi si è rivolta ad uno dei centri per la disforia dove il figlio 15enne che manifestava semplicemente dubbi sulla sua sessualità è stato invece immediatamente spinto a fare la transizione sociale e dopo soli 6 mesi è stato inviato dall’endocrinologo. La madre ha ritenuto tutto troppo frettoloso e non è andata avanti con gli ormoni eppure il ragazzo a distanza di più di un anno non ha avuto nessuna conseguenza psicologica, continua ad esprimersi esteticamente come vuole. La nostra domanda è questa: siamo sicuri che assecondare un desiderio così insondabile piuttosto che indirizzare verso una psicoterapia esplorativa sia la scelta giusta?

Un altro elemento che vi accomuna è questo: secondo le vostre esperienze, «in Italia si danno bloccanti della pubertà con troppa leggerezza». In che senso?

Nell’esperienza delle famiglie che si rivolgono a GenerAzione D – e ad oggi sono più di un centinaio, provenienti da ogni parte d’Italia – i ragazzi o le ragazze hanno incontrato lo psicologo appena sei volte: una volta al mese, per 45 minuti). Dopodiché a noi genitori è stato presentato un “ricatto morale”: in sostanza viene dello che «tuo figlio – o tua figlia – sta molto male, potrebbe arrivare a compiere gesti drammatici, di autolesionismo, perché il suo corpo gli/le genera disagio, quindi vi chiediamo l’autorizzazione per iniziare una terapia con dei farmaci bloccanti». Le esperienze che raccontano le famiglie sono molto simili, che si tratti di Bari, Roma, Firenze o Torino.


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La terapia con i bloccanti ipotalamici (la triptorelina è un GnRH analogo, ovvero una molecola che agisce sul sistema endocrino e sospende l’arrivo della pubertà) è usata in Europa dagli anni Settanta a partire dall’esperienza del VU- University Medical Center di Amsterdam. Qual è la vostra posizione?

I nostri sono spesso ragazzini confusi, che attraversano momenti difficili in un’età intrisa di cambiamenti. Questi bloccanti vengono somministrati ai bambini solitamente allo stadio di Tanner 2 (in genere 9-10 anni per le ragazze e 11-13 anni per i ragazzi) e nel contesto della disforia di genere sono catalogati come medicinali off-label, in quanto autorizzati per patologie diverse dalla disforia di genere, come l’irsutismo, la pubertà precoce o malattie oncologiche. Essendo quindi farmaci somministrati a una platea completamente diversa da quella per la quale sono stati studiati, ad oggi sono ancora sconosciuti gli effetti a lungo termine di tale trattamento sui bambini disforici, né ci sono evidenze delle conseguenze su gruppi specifici di individui a livello di neurodivergenza, etnia, storia medica familiare. Da quello che ci risulta, i Paesi del Nord Europa e l’Inghilterra, che sono precursori sul tema del trattamento della varianza di genere, nel corso dell’ultimo biennio hanno rivisto profondamente l’approccio all’incongruenza di genere e ne hanno evidenziato le molteplici criticità, qualificando il trattamento con i bloccanti della pubertà come “sperimentale”, mancando totalmente informazioni sui potenziali danni della terapia.

In Italia la terapia con i bloccanti ipotalamici  è stata raccomandata dall’Aifa e approvata Comitato Nazionale di Bioetica, oltre che dalle principali società scientifiche italiane (come SIAMS-SIE-SIEDP e SIGIS). Le linee guida prevedono che questi farmaci vengano somministrati «in seguito a esplicita richiesta della famiglia e del minorenne, dopo un’approfondita valutazione diagnostica e osservazione clinica da parte dell’équipe psicologica, dell’equipe medica e dopo l’acquisizione del consenso informato firmato da entrambi i genitori e di assenso/consenso del o della minorenne». I vostri genitori hanno incontrato degli psicologi?

Crediamo che l’aver incontrato uno psicologo sei volte non rappresenti un tempo sufficiente per maturare la scelta di bloccare la propria pubertà e per comprenderne a fondo le conseguenze. Su molti di noi, come dicevamo, pende la spada di Damocle del pericolo di suicidio ventilato dai medici. Di fronte del quale molti genitori si sentono di fatto costretti ad assecondare incondizionatamente le percezioni e le aspettative dei loro figli verso una rapida transizione. Nel nostro caso abbiamo firmato l’autorizzazione pur avendo ben chiaro che nostra figlia non aveva la maturità e l’esperienza necessarie per poter compiere scelte di tale portata, il cui rischio di pentimento porterebbe in grembo anche l’inevitabile recriminazione verso i genitori, rei di non aver impedito una scelta adolescenziale azzardata.

Secondo alcuni esperti, tra cui l’endocrinologa Alessandra Fisher che lavora all’ospedale Careggi di Firenze e ha alle spalle una lunga esperienza con i minori gender variant (o transgender), questo approccio è totalmente reversibile: in qualunque momento si decida di interrompere la terapia, la pubertà riprenderà nella direzione del sesso biologico.  Voi cosa ne pensate?

Nel 2023 la Commissione nazionale d’inchiesta per il Servizio sanitario e assistenziale norvegese ha licenziato un documento in cui afferma che «l’uso di bloccanti della pubertà e la terapia ormonale sono trattamenti parzialmente o completamente irreversibili». L’ospedale svedese Karolinska ha sospeso la somministrazione degli ormoni bloccanti della pubertà, affermando che «questi trattamenti sono potenzialmente gravidi di conseguenze negative estese e irreversibili». L’Nhse, il servizio sanitario inglese, dubita che «i bloccanti della pubertà forniscano davvero tempo prezioso ai bambini e ai giovani per considerare le loro opzioni», chiedendosi «se piuttosto non “blocchino” i bambini e i giovani, incanalandoli in un percorso terapeutico che culmina nell’assunzione di ormoni femminilizzanti/mascolinizzanti, impedendo il normale processo di sviluppo dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere». Recenti studi hanno infatti rilevato che quasi tutti i bambini (95-98%) a cui vengono prescritti bloccanti della pubertà, assumono in seguito ormoni cross-gender. Ciò significa che la prescrizione di bloccanti della pubertà elimina virtualmente la possibilità di desistenza, trattandosi di un intervento esogeno che induce i bambini a persistere in un’identità transgender. E di tale rischio dovrebbero essere informati i genitori. Inoltre i principali studi scientifici confermano come la disforia di genere nei bambini in età prepuberale nella gran parte dei casi scompaia spontaneamente durante l’adolescenza (80-95%), per cui interventi invasivi come la somministrazione di bloccanti della pubertà rischiano di alterare il corso naturale dello sviluppo psico-fisico, indirizzando la gran parte dei bambini verso una frettolosa transizione medica. Per scongiurare tale evenienza, sempre più voci autorevoli del panorama scientifico ritengono indispensabile adottare con i bambini e gli adolescenti un approccio maggiormente cauto rispetto a quello meramente affermativo, applicando invece la cosiddetta “vigile attesa”.

Tutti voi preferite rimanere anonimi. Per questo motivi nell’articolo non ci saranno nomi e cognomi. Come mai questa scelta?

La scelta è dettata innanzitutto dalla necessità di proteggere la privacy dei nostri figli che, come ben si intuisce, già stanno lottando con problemi psicologici. Sono ragazzi e ragazze molto vulnerabili e mettere in piazza i loro nomi nonché i loro disagi potrebbe nuocere loro ulteriormente vista la delicatezza dell’argomento in questione. In secondo luogo, spesso siamo visti come persone transfobiche, che non accettano i propri figli, e non come genitori che, assumendosi la propria responsabilità educativa, stanno solo cercando di capire il reale disagio dei propri figli e  pretendono le migliori cure per tutti.  Non usiamo i nostri nomi anche per questo, perché i genitori che non affermano immediatamente il nuovo genere sono spesso percepiti come nemici e rischiano di essere estromessi dalla vita dei figli.

Foto in apertura, Alexander Grey su Unsplash

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