Meno male che c’è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a diradare le nebbie della politica. Una fiammata forse inattesa di chiarezza nelle sue parole per l’apertura delle celebrazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia. “Alle forze politiche che hanno un significativo ruolo di rappresentanza democratica sul piano nazionale – ha detto a Reggio Emilia, guadagnandosi una standing ovation -, e lo hanno in misura rilevante in una parte del paese, vorrei dire che il ritrarsi, o il trattenere le istituzioni, dall’impegno per il cento cinquantenario – che è impegno a rafforzare le condizioni soggettive di un’efficace guida del paese – non giova a nessuno. Non giova a rendere più persuasive, potendo invece solo indebolirle, legittime istanze di riforma federalistica e di generale rinnovamento dello Stato democratico”.
Un richiamo forte alla Lega e anche al presidente del Consiglio, che brillava per la sua assenza, come rileva opportunamente La Stampa . E Umberto Bossi ha risposto secco: «Festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia? Sì, dopo che sarà approvato il federalismo ». Il senatùr ha dunque rilanciato l’ultimatum sull’unico punto politico per il quale sino ad oggi è stato disposto a ingoiare i rospi cucinati a Roma: federalismo entro gennaio, poi festeggiamo tutti, altrimenti si va a votare in primavera.
Io penso che tutte le forze che hanno a cuore i diritti dei cittadini, specie dei cittadini più deboli e indifesi, le persone con disabilità, gli anziani, i malati, dovrebbero oggi porre un altro ultimatum, altrettanto forte e chiaro: “Prima del federalismo si discutono e si votano i Livelli essenziali di assistenza”. Ovvero si applica la Costituzione per intero: comma “m” dell’articolo 117, inserito, guarda caso, proprio nel Titolo V, quello invocato per l’attuazione del federalismo. Leggiamo: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: (…) m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;”.
E invece sento un silenzio assordante. Non è la stessa cosa, oggi, ma neppure ieri, essere persona con disabilità a Milano o a Palermo, a Torino o a Napoli, a Trento o a Cagliari. I diritti sono i medesimi, ma la differenza è troppo forte, scandalosa. Il federalismo deve avere il correttivo di uno sguardo d’insieme sui diritti essenziali. Servizi domiciliari, ausili, prestazioni di riabilitazione, trasporti, inclusione scolastica, lavoro, sono solo alcuni dei temi attorno ai quali le differenze di trattamento, a parità di condizione di cittadinanza, sono talmente evidenti da non dover neppure essere ricordate. E invece l’unico riferimento politico sembra essere quello dell’efficienza e della capacità di spendere meno e meglio i soldi pubblici. Certo, è evidente che una spesa di welfare o di sanità fuori controllo per clientelismo, burocrazia, incapacità gestionale, danneggia prima di tutto i cittadini del proprio territorio. Ma la colpa non è dei cittadini. Un ragazzo disabile del Sud paga due volte questa situazione. Prima di tutto in servizi e in qualità della vita, e adesso, in prospettiva, anche in risorse economiche e finanziarie che saranno ancora più scarse, senza un corrispettivo accettabile di efficienza.
Nessuno sembra intenzionato a porre con forza la “questione nazionale dei diritti”. E in questo vuoto si sentono solo le voci di Napolitano e di Bossi. I Lea, livelli essenziali di assistenza, sono in qualche cassetto del Governo. Tanto chi è che alza la voce e batte i pugni sul tavolo? Nessuno.
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