Cultura

I diritti di chi lavora dentro lo spogliatoio

Un esercito di precari all’ombra del ricchissimo sport italiano

di Pasquale Coccia

Produttivi e sommersi. I lavoratori impegnati nel settore sportivo in Italia sono invisibili e producono molto in un settore dove i diritti non esistono, ma gli affari sono vorticosi, visto che lo sport nel nostro Paese fattura 50 mila miliardi all?anno, pari al 2,5%del Pil.
La denuncia parte dalla Cgil, che in un recente convegno ha puntato il dito proprio sul lavoro sommerso. Sarebbero centinaia di migliaia le persone in nero o precarie, a fronte di poche decine di migliaia di lavoratori che godono di un contratto regolare, seppur differenziato rispetto alle stesse mansioni. Coloro che lavorano nel settore sportivo, secondo il sindacato, operano in una vera e propria giungla priva di diritti e risultano essere i meno tutelati, insieme a quelli del settore edile. Un dato significativo: l?anno scorso a Roma la Cgil ha sostenuto davanti ai magistrati del lavoro oltre 500 vertenze provenienti dall?ambito sportivo. Un dato che, proiettato su scala nazionale, fa registrare ben 10 mila vertenze.
«Chiediamo che il ministro Cesare Salvi intervenga sul tema del lavoro nero nello sport, attraverso normative che facciano emergere tutto il sommerso di questo settore e regolino i diritti minimi», afferma Piero Soldini, responsabile dell?ufficio sport della Cgil. «In Italia vi sono 500 mila lavoratori che operano nel settore, la gran parte dei quali sono considerati ?atipici?, figure professionali che si collocano al confine tra il lavoro subordinato e quello autonomo e perciò ritenuti collaboratori coordinati e continuativi. Ma sono soggetti che lavorano da anni nell?ambito sportivo, quindi non possono essere ritenuti atipici rispetto al contesto lavorativo. Si tratta di persone prive di copertura assistenziale, che non maturano diritti previdenziali. Se a questi si aggiungono 189 milioni di ore di lavoro fatte passare come volontariato, siamo innanzi a un vero e proprio esercito sommerso che fa lavoro nero» denuncia il sindacalista. Al ministero del Lavoro hanno recepito almeno in parte le denunce e gli ispettori del ministro Salvi faranno capolino tra gli impianti sportivi e le palestre della capitale. La Cgil punta il dito anche sulle aree a rischio, ove il tasso di impianti sportivi è particolarmente basso rispetto alle aree dell?Italia del Nord. La richiesta è di inserire i contratti d?area nei patti territoriali dove più alta è la percentuale di disoccupazione giovanile.
Un altro fronte riguarda gli atleti che terminano la carriera agonistica. Si chiede un intervento del Credito Sportivo, prossimo alla riforma, che finanzi il reinserimento anche di ex atleti nel contesto sociale e lavorativo. Un esperimento in questo senso è stato avviato da Adecco, agenzia internazionale specializzata nel lavoro interinale, per 50 atleti. Un numero ristretto, rispetto alle centinaia di atleti che chiusa l?attività agonistica si trovano fuori da ogni contesto lavorativo, perciò attraverso le Agenzie regionali per l?impiego, l?organizzazione sindacale di Sergio Cofferati propone un loro ricollocamento.
Un?altra situazione paradossale si è determinata tra quei 10 mila lavoratori, dipendenti del settore ippica, manutenzione impianti sportivi, servizi sportivi vari del Coni, che sono regolati da 10 contratti di lavoro diversi, siglati rispattivamente dal Coni, Federambiente della Confindustria, Cispel e altre associazioni di categoria. Una differenziazione sul piano economico e previdenziale che non ha ragione di esistere, perciò la Cgil sollecita il ministro del Lavoro Cesare Salvi a favorire il confronto tra le parti per rendere omogenei i contratti di lavoro. E a rendere legittimo, attraverso il roconoscimento dei diritti, quel lavoro nero che contribuisce a produrre una ricchezza di 50 mila miliardi all?anno. Mettendo fine ad uno dei tanti paradossi dello sport italiano.

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