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I cattolici sono diventati minoranza. Come deve cambiare la Chiesa?

Di fronte al calo dei praticanti le diagnosi e le ricette di tre importanti intellettuali: il cardinale emerito di Bruxelles Jozef De Kesel, il teologo Brunetto Salvarani e il vescovo di Asti Marco Pastraro

di Lorenzo Fazzini

Trentasei e diciannove. Non sono numeri da giocare al lotto, bensì due cifre che raffigurano in maniera plastica la secolarizzazione sempre più galoppante in Italia. Nel 2001 la frequenza regolare nelle chiese (intendendo quelle cattoliche) era attestata in oltre 1 su 3, appunto il 36% degli italiani. L’ultima indagine Istat riferita al 2022 – l’anno che segue la cesura epocale del Covid – dice che appena il 19% dei nostri concittadini varca regolarmente, cioè settimanalmente, una chiesa per partecipare alla messa.

Questo cambiamento che rende sempre meno cattolica l’Italia, diventata al contempo un Paese più pluralista dal punto di vista religioso vista l’immigrazione ormai assodata e non più fenomeno emergenziale, annovera ricadute sociali e culturali importanti. Ed è diventata anche occasione di riflessione all’interno stesso del mondo cattolico, almeno quello più avveduto e critico in senso riflessivo. Mentre invece la parte più reazione del panorama ecclesiale si guarda intorno, spaesata, alla ricerca di appigli per riesumare un mondo che non esiste più: un esempio su tutti, la nostalgia per la messa in latino, emblema di una visione teologica che non sa calare la fede cristiana dentro il travaglio del tempo moderno. Basta un veloce giro sul web per rendersene conto.

Ma veniamo ad osservare come dentro la Chiesa ci si pone, a livello culturale, di fronte al dato di fatto che i cattolici sono ormai diventati una minoranza. È riscontrabile un pensiero che si ponga la domanda, e abbozzi una risposta, di cosa voglia dire questa nuova situazione per il cattolicesimo? Qualche esempio a mo’ di risposta c’è.

Partiamo da Bruxelles, dove il cardinale emerito della capitale belga, Jozef De Kesel, ferrato biblista e teologo, ha affrontato in Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna (Lev) questa nuova condizione. Che nella penna del presule fiammingo diventa anzitutto una constatazione, né amara né rivendicativa: «In breve, la situazione è questa: da religioso che era, l’Occidente è divenuto secolarizzato. La religione non occupa più lo stesso posto e non è più presente in modo evidente, come in passato. Essere Chiesa in una società che non è più religiosa è tutt’altra cosa che essere Chiesa in una società cristiana». Da parte sua il teologo Brunetto Salvarani, da tempo dedito al pensare la fede cristiana in un contesto secolarizzato, nel suo recente Senza Dio e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano (Laterza) snocciola una diagnosi impietosa: «Numeri in picchiata di presbiteri e suore europei, sempre più anziani e illusoriamente sostituiti da quadri giovani provenienti dall’Africa, dall’Asia o dall’America latina; la scomparsa di gloriose riviste storie e il tonfo drammatico dell’editoria religiosa, l’assenza di riflessioni teologici di qualità di diversi istituti religiosi e missionari, l’arrancare affaticato di non poche facoltà teologiche, e così via». 

L’errore, forse, consiste anche nel fatto che il cattolicesimo italiano, per troppi decenni, si è pensato come un’eccezione nel contesto europeo, immune dai processi di secolarizzazione, impegnato in un’autorappresentazione di “chiesa di popolo”, concetto poi da giocare con una qual furbizia anche nel tavolo della politica: «A lungo ci siamo sbagliati pensando che il cristianesimo fosse una prerogativa dell’Europa – o forse ancor più dell’Italia – che doveva essere portata in altre religioni ai margini, alle periferie del mondo. A quanto pare in questa nuova epoca post-cristiana, l’Europa e con essa la nostra Italia sta diventando la periferia e il margine a cui (ri)portare la fede» certifica Marco Prastaro, vescovo di Asti, nel suo Dio dove sei finito? Inquietudini e interrogativi su una Chiesa che diviene minoranza (San Paolo). Un libro nel quale un vescovo, che ha vissuto per oltre 10 anni tra i Masai del Kenya come missionario, prova a riflettere su questa nuova condizione di cattolicesimo minoritario.


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Fin qui le diagnosi. Ma cosa propongono, come rimedio, gli autori sopracitati? Quali piste di lavoro, azione e, prima ancora, di pensiero suggeriscono?

De Kesel presenta la sua proposta in quattro aggettivi riferiti alla Chiesa, che potranno far storcere al naso a tanti cattolici che ancora identificano la significanza del Vangelo con il prestigio sociale della Chiesa: umile, piccola, professante, aperta: «Non una Chiesa che si ripiega e si rinchiude in sé stessa con un atteggiamento di autosufficienza, ma una Chiesa aperta al mondo, aperta a quelli che cercano, una Chiesa che li accoglie con benevolenza. Non una Chiesa che condanna e vive sulla difensiva, ma una Chiesa solidale con gli uomini del nostro tempo». En passant, non è un caso che sia stata proprio la Chiesa belga presieduta da De Kesel quella che ha sperimentato per prima in Europa, in forma istituzionale, la benedizione delle coppie irregolari, anche di persone omosessuali, come segno di vicinanza del Dio cristiano ad ogni persona, pratica ora estesa dal Vaticano a tutta la Chiesa cattolica a livello mondiale. 

Prastaro guarda a una possibilità ecclesiale in cui l’elemento spirituale prevalga nettamente e in maniera “scandalosa” rispetto a un mondo consumistico e votato all’esteriorità: «Questo potrebbe essere la Chiesa del futuro: un’oasi di pace e di vita in mezzo al caos in cui ciascuno ritrova la propria identità di figlio amato. Un’oasi in cui entri e ti rigeneri, per ritornane nel caso e farlo diventare materia prima di vita interiore, per te, per gli altri, per tutti. Questo è il compito di ogni comunità cristiana. Questo ha come suo habitat vitale la fraternità».

Salvarani traccia, sul fronte intellettuale, una nuova comprensione di chi faccia parte della Chiesa, guardando anche l’esperienza rivelativa del Covid. Osservando come la stagione della pandemia abbia segnato la fine della civiltà parrocchiale, si assiste a una «Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre a una nuova missionarietà», dove, come è stato nell’era del Covid, la casa è diventato la chiesa: «Non conta in quante, ma conta che sia avvenuto, e che in molte case si sia allestito un tavolo con la Parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fiori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile; che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore». Ecco, forse tutto sta in questa parola: “sapore”, una Chiesa che torni a far assaggiare il sapore del Vangelo, per tutti, credenti e non credenti. Perché, come scriveva il grande Cormac McCarthy, «non si può salare il sale». 

Foto di Francisco Fernández/Pexels

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