Economia
I cantieri della “città solidale”
Politiche abitative: autocostruzione, co-housing, contratti di quartiere. Si moltiplicano le esperienze che puntano a nuove forme dell'abitare. Idee per un'urbanistica partecipata
di Luca Zanfei
La partita che il ministro Paolo Ferrero si appresta a giocare al tavolo di concertazione sulla questione abitativa, ha una duplice lettura. In ballo non c?è solo il diritto alla casa, ma un diverso concetto di vivibilità dei grandi centri urbani.
In quest?ottica il convegno tenutosi a metà aprile a Roma con a tema l?housing sociale ha già lanciato un messaggio forte: una nuova politica dell?abitare non può prescindere dal coinvolgimento della popolazione nelle pianificazione e creazione dei propri spazi vitali.
Un principio che in Europa ha ispirato il recupero e la nascita di diverse zone periferiche, grazie ad una vera e propria pianificazione nazionale, ma che in Italia non si è mai tradotto in una reale politica di sistema. Eppure anche sul nostro territorio non mancano esperienze innovative di creazione di villaggi socialmente assistiti, di autocostruzione abitativa e di progettazione partecipata di servizi e spazi di aggregazione.
L?autocostruzione
Progetti che evidenziano l?importanza del dialogo tra pubblico e privato sociale nel proporre una diversa concezione della città. Come nel caso dell?autocostruzione. Una pratica che ha radici poco nobili nell?abusivismo degli anni 60 e 70, ma che oggi grazie all?apporto di cooperative come Alisei e all?ausilio degli enti pubblici nella fase di individuazione delle aree edificabili (e spesso anche nelle stesse garanzie fideiussorie fornite alle banche), rappresenta oggi una delle nuove e meno costose forme di edilizia pubblica.
Ma non solo, «per sua natura l?autocostruzione è un?efficace metodo di riqualificazione delle periferie perché, mettendo a contatto persone di diverse culture e condizione sociale nella costruzione delle proprie case e di interi insediamenti abitativi, ha creato relazioni e quindi basi solide per cementare la comunità e proiettarla verso l?esterno», spiega Ottavio Tozzo, presidente di Alisei. «Inoltre, grazie alla versatilità dei progettisti e all?alta qualità dei materiali impiegati, è possibile ragionare sulla qualità architettonica dei quartieri, impostando una pianificazione sostenibile e coerente».
Co-progettazione dei servizi
In Paesi come la Germania questa pratica ha rappresentato un metodo innovativo di pianificazione urbanistica di interi quartieri, investendo persino il campo dei servizi, con la costruzione di scuole e asili, e persino di piazze. In Italia le esperienze di questo tipo sono ancora limitate e riconducibili e alla sola iniziativa privata. Il co-housing, per esempio, è praticato quasi esclusivamente in Lombardia dove aziende private rilevano fabbriche e corti dimesse per riqualificarle secondo l?ottica lecorbusiana della ?città in un solo edificio?. Con una differenza, «sono gli stessi abitanti che decidono insieme la destinazione a servizi delle aree appositamente predisposte dai progettisti», precisa Luciano Cecchi, presidente di Federcasa. «In più grazie all?aiuto di mediatori sociali si rilevano i bisogni di ciascuno, si stimola l?aiuto reciproco e si cementa il gruppo al suo interno, rendendolo più predisposto al rapporto con l?esterno. Proprio in quest?ottica, il co-housing potrebbe fornire un ausilio ai progetti di autocostruzione semplificando la comunicazione tra le comunità presenti sul territorio e facilitando il collegamento tra le diverse zone».
I contratti di quartiere
Così potrebbe essere proprio la commistione tra le varie esperienze fatte sul territorio a garantire il futuro del recupero urbanistico. Ma tutto ciò non può prescindere da un nuovo modo di fare intervento pubblico. Le amministrazioni, «devono superare la semplice ottica risarcitoria nel rimediare a precedenti politiche dissennate», spiega Mauro Maurino, consigliere Cgm. «Non basta garantire i servizi dall?alto, in una visione assistenziale dell?intervento, ma si deve dare la possibilità al singolo cittadino di rispondere ai propri bisogni e a quelli degli altri».
E in questa prospettiva si è mosso il ministero delle Infrastrutture che dal 90 ha finanziato oltre dieci contratti di quartiere per il recupero partecipato di alcune zone periferiche. Progetti che hanno come comune denominatore il recupero delle zone degradate attraverso la rinascita della stessa comunità. Esperienze che «hanno avuto anche il grande merito di impostare un nuovo modo di fare pianificazione urbanistica incentrata sulla collaborazione stretta tra architetti e popolazione nella progettazione degli spazi», sostiene Assunta D?Innocenzo di Legacoopsociali. «Insomma, con i contratti di quartiere si sono abbandonate quelle vecchie pianificazioni lontane dai bisogni della popolazione e basate su progetti sperimentali ma assolutamente privi di un?ottica socialmente sostenibile». Ma al momento questi contratti funzionano solo per opere di riqualificazione di portata limitata, a causa delle lungaggini nei numerosi tavoli di concertazione e alle difficoltà delle amministrazioni di fare sistema con le realtà sociali.
Proprio da qui parte la proposta di Tozzo: «L?Italia deve seguire l?esempio europeo e superare il localismo delle esperienze con l?impostazione di un piano nazionale per lo sviluppo urbano. I soggetti coinvolti dovranno essere amministrazioni, non profit delle cooperative e profit delle banche. Sarà lo Stato a coordinatore le diverse esperienze, garantendo la bancabilità dei progetti e avviando un processo virtuoso di responsabilità sociale anche per gli istituti di credito nel ridefinire e semplificare la concessione di mutui. Non c?è bisogno di inventare, basta prendere spunto dalle esperienze già esistenti sul territorio e metterle a sistema».
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