Formazione

I bravi non mi interessano

Lezione di lettere nel carcere minorile di Milano

di Redazione

Maura Borghi da 20 anni lavora con i cosiddetti “ragazzi difficili”.
«Non devi mai giudicarli, ma nemmeno puoi giustificarli»«Non sono portata a insegnare a quelli bravi. Non vado bene nei prati inglesi, io. Ma funziono alla grande tra le sterpaglie». Maura Borghi insegna Lettere nel carcere minorile Beccaria, a Milano, da 20 anni. «Praticamente un ergastolo», scherza.
Vita: Chi gliel’ha fatto fare?
Maura Borghi: Nessuno, ma lo rifarei, senza dubbio. Avevo iniziato da straprecaria in un quartiere definito “tremendo” di Corsico. Mi sono trovata benissimo. L’anno dopo si è liberata una cattedra al Beccaria e mi sono detta «Provo». Sono ancora qui.
Vita: Quando si parla di insegnanti in carcere si pensa sempre a una specie di «Mery per sempre»…
Borghi: L’ho visto all’anteprima! E poi sono andata da Placido a dirgli che non mi era piaciuto per niente.
Vita: Non era verosimile?
Borghi: La realtà è peggio e meglio. È un percorso a pezzetti. Ti trovi in mezzo a ragazzi non facili. Sono obbligati a seguire la scuola, maschi e femmine. Hanno diversi livelli di competenza, sono una mescolanza pazzesca di etnie e di storie. Sono arrabbiati.
Vita: Come li cattura?
Borghi: Non devi mai barare. Devi esserci: sempre presente, sempre puntuale. Non devi giudicarli, l’ha già fatto qualcun altro che era chiamato a farlo. Non devi giustificarli. Devi avere la sicurezza di insegnare, la consapevolezza che non puoi salvarli, ma puoi modificare il meccanismo in cui sono incastrati. Loro fanno lo stesso gioco da quando sono nati: sono stati bollati come i cattivi, lo sanno fare alla grande. Il tuo dovere è modificare la partita, cambiare le regole, mostrare che esistono altre strade. Sta a loro, dopo, decidere se seguirle o no.
Vita: A livello didattico, come si muove?
Borghi: Con estrema libertà. Per quanto mi riguarda, il nostro insegnamento deve puntare a renderli cittadini attivi. Tra il sapere un participio o la Costituzione, io non ho dubbi. Noi insegnanti mettiamo delle fondamenta, cioè quella voglia di sapere che rappresenta una risorsa per affrontare tutti i problemi della vita.
Vita: Cosa si legge in classe?
Borghi: Di tutto, da Prévert?
Vita: Scherza?!
Borghi: Beh, è un classico, a 17 anni siamo tutti disperati per amore, anche in galera. Poi la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, proverbi e storie zen, brani di libri, da Carlotto a Ben Jelloun, da Hesse a Rosso Malpelo. Abbiamo un progetto di lettura con i ragazzi del liceo Volta.
Vita: Qualcosa di bello e qualcosa di triste che si porta dentro…
Borghi: Un ragazzo che non voleva seguire le lezioni, mi copriva di insulti. Una mattina che non era sceso, sono andata a prenderlo in stanza e l’ho trascinato in classe in mutande. Adesso è un uomo di successo, ha una sua impresa ed è una persona in gamba.
Vita: E la cosa brutta?
Borghi: I ragazzi persi. L’ultimo mi aveva scritto una lettera prima di uscire, e poi morire. «Pensa che bello, prof, se da delinquenti diventassimo tutti poeti».


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