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I biopirati in camice bianco all’assalto dei tesori indigeni

brevetti. Così alcune coroporation farmaceutiche “rapiscono” le medicine segrete dei nativi

di Irene Amodei

Da piante tropicali si ricavano farmaci che generano profitti giganteschi. Ma alle popolazioni locali non arrivava mia nulla. Ora però le cose stanno cambiando. A Ginevra per la prima volta i nativi hanno ottenuto una vittoria. E adesso…

L’ hoodia è un cactus alto circa un metro e mezzo. Dalla notte dei tempi i Kung del Kahalari e i Boscimani del Sudafrica se ne servono per combattere la fame durante le lunghe battute di caccia nel deserto. Nel gambo è infatti presente un principio attivo capace di dare un prolungato senso di sazietà.

Il gene spezzafame, battezzato P-57 dal sudafricano Council for Scientific and Industrial Research, viene isolato, brevettato e commercializzato all?inizio del 2000 da una piccola azienda farmaceutica inglese, la Phytopharm, la quale ne cede poi la licenza esclusiva, per 21 milioni di dollari, all?americana Pfizer. Manco a dirlo, il «cactus dietetico in pillole» si rivela una vera e propria gallina dalle uova d?oro in un mondo in cui 1,6 miliardi di adulti sono sovrappeso e 400 milioni soffrono di obesità.

Corsari senza uncino

In gergo tecnico, il furto delle conoscenze tradizionali dei Boscimani e il loro egoistico sfruttamento economico prende il nome – coniato per la prima volta da Pat Mooney della Rural Advancement Foundation International nel 1993 – di biopirateria.

Niente uncino né bende sull?occhio. Il biopirata non ha il fascino ribelle di un corsaro salgariano, ma l?aspetto un po? asettico del ricercatore occhialuto in camice bianco. Al soldo di università, industrie agro-alimentari, chimiche, farmaceutiche o biotecnologiche, non esita a travestirsi da antropologo per entrare in contatto con le popolazioni più remote del pianeta, allo scopo di carpirne i segreti, siano essi piante medicinali, funghi, semi, principi attivi o vere e proprie risorse genetiche. La suddetta spoliazione assai di rado prevede un qualche tipo di compensazione o risarcimento (le royalties essendo, astutamente, vincolate al prodotto derivato… ).

Ancora una volta, e spesso senza neanche averne il sospetto, la povertà si ritrova, suo malgrado, a sussidiare la ricchezza. Accade così che la Eli Lilly & Co. di Indianapolis metta a punto due farmaci di successo – la vincrastina e e la vinblastina – a partire dalla vinca rosea, una pianta del Madagascar (nella foto), senza che nessuno, al di fuori della ditta, partecipi dei profitti. O che i ricercatori dell?università del Wisconsin, seguendo la stessa strategia, brevettino una proteina tratta dalla bacca africana J?Oblie per farne un dolcificante.

Eppure la Convenzione del 92…

D?altronde la biodiversità è ormai diventata un affare di prim?ordine. Qualche cifra: 43 miliardi di dollari il valore corrente del mercato mondiale delle piante medicinali; 147 milioni di dollari il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati a partire da piante tropicali; 5 miliardi di dollari il giro d?affari complessivo, secondo solo a quello legato al traffico d?armi e di droga.

Il meccanismo, tutt?altro che nuovo, ma ancora piuttosto sfuggente, è direttamente connesso al controverso tema dei patent rights, uno dei cardini della moderna geometria del capitale. La china della «brevettabilità del vivente» è dietro l?angolo. La mostarda indiana, il pepe nero, il riso parboiled, addirittura il codice genetico di un indigeno Hagai della Papua Nuova Guinea. Tutto è potenzialmente brevettabile in natura.

A Ginevra, il serrato braccio di ferro tra nativi e corporation – che ha sortito insperate vittorie a vantaggio dei primi, come nel caso dell?ayahuasca, un estratto vegetale tradizionale dell?Amazzonia, utilizzato sotto forma di bevanda dai contadini colombiani a scopo rituale, il cui brevetto medico è stato revocato a seguito di una causa legale nel 1999 – assume i ritmi cerebrali della diplomazia. In febbraio al Palais des Nations, sede dell?Onu, si è riunito per la prima volta un gruppo di lavoro impegnato nella negoziazione di un Protocollo internazionale che intende assicurare alle popolazioni indigene una parte dei benefici derivati dalla commercializzazione delle risorse genetiche. Un obiettivo ambizioso, già teoricamente contemplato nella Convenzione sulla biodiversità del 92.

Non governativi in campo

«Codificando un regime internazionale di accesso alle risorse e ripartizione dei benefici, il Protocollo metterà fine allo scandalo della biopirateria», sentenziano i diplomatici dalle rive del Lemano. D?accordo. Ma sarà sufficiente? «Tutto dipende da come s?interpreta il concetto di biopirateria», commentano i militanti di Grain, una ong che si batte contro l?«erosione genetica». «Biopiracy significa essenzialmente che si prende qualcosa che appartiene a qualcun altro, senza avere il permesso e senza pagarla. Implicitamente ciò significa che se ci si accorda su un qualche tipo di licenza e corrispondente compensazione, il reato non sussiste più. Per noi, tuttavia, il vero problema è invece legato al concetto di appartenenza. Chi ha deciso che la biodiversità appartiene a qualcuno?». La soluzione «legalista», in altre parole, benché studiata per favorire e difendere i governi del Sud, finirebbe solo per facilitare l?appropriazione delle risorse genetiche, limitandosi a fissare il prezzo e a scegliere il miglior offerente. Per schierarsi nella querelle, non resta che decidere se (ed eventualmente quanto) il mondo è in vendita.

Per saperne di più: www.grain.org


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