Prima di tutto, prima di ogni considerazione politica o sociale, il muro è semplicemente brutto. Otto metri sono tanti: alzo lo sguardo, butto la testa all?indietro, ma vedo solo cemento. La reazione può essere solo una: sentirsi in prigione. Mi viene voglia di scappare, ho bisogno di vedere colori, di respirare. Invece proseguo, docile e remissiva. Io e Mauro ormai sappiamo come comportarci ai check point. Non c?è spazio per obiettare, sotto i mitra puntati degli israeliani spaventati dal terrorismo palestinese. Una sera, tornando al seminario di Beit Jalla, c?è una fila lunghissima di auto. Dopo un po? ci dicono che hanno chiuso il check point. Lasciamo la macchina al bordo della carreggiata e ci incamminiamo, come tutti, passaporto in mano, passando tra due file di mitra. Contro un muro, nudi, un gruppo di ragazzini: per loro controlli accurati. Torneremo a prendere l?auto il giorno dopo, quando il passaparola farà sapere che il check point è stato riaperto. Per difendersi dalla paura si calpesta la dignità.
La Crèche, l?orfanotrofio di Betlemme in cui lavoriamo, è una prigione nella prigione. Ci sono bambini tolti alle famiglie o abbandonati. Molti sono nati da relazioni extraconiugali, e sono delle condanne a morte per le loro madri. Che così scappano, e prima di sparire lasciano a suor Sophie i loro bambini. La casa della Crèche è molto bella, c?è un giardino e addirittura una piscina.
Quando sono entrata per la prima volta ho pensato che quei bambini erano fortunati! Ma dopo una settimana chiusi nel fiorente giardino interno, si appassisce di tristezza: vorrei portare fuori i bambini, ma fuori dove? A fare una passeggiata fino al muro?
Alla Crèche c?è un bellissimo terrazzo. Da lì si vede il deserto, e Israele. È il posto preferito dei bambini. Guardano il mondo attraverso le sbarre della ringhiera, puntando un ditino verso l?orizzonte.
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