L’ascesa dell’economia della collaborazione (sharing economy) ed il rilancio della cooperazione come metodo per produrre valore ci offrono non solo la possibilità di costruire nuovi paradigmi economici e sociali ma anche la possibilità di rompere l’assunto antropologico che l’interesse della persona vada perseguito individualmente e spesso in competizione con gli “altri”. Recentemente mi è stato chiesto di scrivere un articolo su questo tema cercando di evidenziare il nesso fra la condivisione e la felicità.
Ho provato perciò a riflettere… e uno stralcio di questa riflessione non potevo non lasciarla in un blog che si chiama #co-operare…
“Una delle scoperte più paradossali di questi ultimi anni è che la felicità non proviene solo dai beni e servizi che il denaro è capace di comprare. Il denaro serve, ma vi sono altre “cose” che servono molto di più: tra queste le relazioni e le esperienze di senso fra persone.
Non è difficile darsene conto.
La promessa che il mercato e la società in generale fanno di una felicità legata al consumo di “beni posizionali” (beni che conferiscono utilità per lo status che creano), porta a sacrificare i beni relazionali e le occasioni di condivisione (basti pensare al crescente tempo che la dimensione totalizzante del lavoro sottrae ai rapporti familiari, di amicizia, di esperienze culturali, sociali, ecc.).
Ma poichè la felicità dipende in buona parte da quei beni “sacrificati“, ne deriva il paradosso in base al quale abbiamo sempre più ricchezza ma siamo sempre meno felici, proprio come tanti Re Mida, che muoiono di una fame che “l’oro non può saziare”.
Utilità e felicità ,quindi, non sono coestensive. Perché l’utilità è la proprietà della relazione tra l’essere umano e la cosa (i beni, i servizi sono utili); la felicità, invece, è la proprietà della relazione tra persona e persona.
La conseguenza di ciò è che si può essere dei massimizzatori di utilità ( intesa come consumo e dotazione di beni) in solitudine, ma per essere felici bisogna essere almeno in due.”
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