Famiglia

I bambini parcheggiati dalle sette alle sei

Racconta P.R., maestra in un istituto del centro storico: «I genitori devono lavorare. Moltissimi sono stranieri e figli di ragazze madri»

di Sara De Carli

Roma, centro storico. Oggi il marchio del quartiere più che l?antico Spqr è il postmoderno melting pot: soprattutto cinesi, sudamericani, filippini e ucraini. Moltissime le ragazze madri sole, ospitate nelle varie case-famiglia del quartiere. Ogni 10 bambini, nove sono stranieri o con una situazione familiare difficile; uno è italiano o ha una situazione famigliare normale. Un rapporto che descrive la realtà del quartiere, anche se non le è fedelissimo, visto che riflette i criteri con cui si fanno le graduatorie: se sei figlio di una ragazza madre a nido ci entri, a ragione, molto più facilmente? Fatto sta che al nido, 60 posti previsti più una quota del 15% destinata ai ?casi sociali? che possono essere inseriti in corsa, gran parte dei bambini entra alle sette del mattino ed esce alle sei di sera. «Nella mia classe», racconta P. R., «su 23 bambini, 18 restano per tutto il pomeriggio». P. R. è una maestra d?asilo, lavora qui da dieci anni, ed è quanto di più lontano ci sia dai giudizi dati con l?accetta. «In questa zona ci sono moltissime ragazze madri: persone sole, irregolari, che devono cercare lavoro, casa, e costruirsi una vita da zero? Un bambino arriva ad essere un peso. Alcune non ce la fanno, dopo un po? lo mandano dai nonni nel paese d?origine. Le altre lo portano da noi per tutto il tempo che possono, vacanze di Natale e mese di luglio compresi». Per i bimbi così piccoli stare al nido per undici ore al giorno è faticoso. Soprattutto il pomeriggio, quando vedono gli altri andare a casa e loro sono costretti all?estenuante attesa della mamma: «C?è un bisogno oggettivo di lavorare, però è il momento di pensare a soluzioni che siano giuste per le mamme e per i piccoli. Anche perché ci sono mamme che finiscono di lavorare alle quattro e vengono a prendersi il bambino alle sei?». Poi ci sono le altre storie drammatiche che P. R. ha incrociato in dieci anni. «Nessuno ti dice mai niente. Capisco la privacy, ma essere informati è l?unico modo per lavorare bene. Non c?è nessuna discriminazione, glielo garantisco. Però io oggi ho un bambino con una grave lesione cerebrale, straniero, che quando aveva un anno e mezzo è stato coinvolto nel rogo della stanza in cui abitava: il papà è morto e lui ha subito gravi ustioni. Possibile che nessuno avesse niente da dirci? Questo è arrivato e lanciava sedie addosso a tutti; oggi va meglio, ma perché noi siamo andate in giro ad informarci. Ci fanno un sacco di corsi inutili sull?arredamento dei locali, possibile che non si riesca a fare un corso sui bambini disabili?». L?altro punto dolente, per P. R., è questo: il lavoro in rete con le realtà che seguono i bambini e la formazione professionale degli educatori. «Ci mandano a Ferrara a studiare i nidi-modello. Ma il nostro mondo è diverso, abbiamo troppe situazioni complicate. Altro che modello, l?unica soluzione è partire dalla realtà: vieni e dicci cosa dobbiamo fare con questo bambino e con quest?altro? Invece no, ci dobbiamo arrangiare e poi ci dicono: ?Guardate come sono brave quelle di Ferrara?».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA