Welfare

I 40 anni di Amnesty Il dna della libert

Com'è riuscita Amnesty International a diventare un'interlocutrice ascoltata e temuta da tutti i potenti? Pierre Sané spiega i segreti della sua forza.

di Redazione

Nel quarantesimo anniversario di Amnesty International, colui che ne è stato segretario generale negli ultimi dieci anni, il senegalese Pierre Sané, cede il posto nell’organizzazione alla bengalese Irene Khan. Quando, nel 1992, Sané inaugurò il suo mandato, dichiarò che accettava l’incarico perché «lavorare per l’universalizzazione dei diritti umani è il miglior servizio che un uomo può rendere ai deboli e ai poveri della nostra società». Dieci anni più tardi, Pierre Sané analizza i semi che ha lasciato per il futuro dell’organizzazione e le nuove sfide in materia di diritti umani. Vita: Ricorrono in questi giorni i quarant’anni di Amnesty International. Secondo lei, quali sono stati i momenti più importanti nella vita dell’organizzazione? Pierre Sané: Gli anni Sessanta, quando nacque Amnesty, rappresentarono un’epoca di significativi cambiamenti. Il ’68 fu un momento chiave, che si tradusse in un importante allargamento dell’organizzazione, poiché la gente si identificava con la difesa delle libertà individuali che Amnesty promuoveva. Più tardi, nel ’77, le fu assegnato il premio Nobel per la pace, il primo dato a un’organizzazione non governativa. Fu la consacrazione internazionale che ci portò a un altro livello, il momento in cui ci assumemmo un maggior carico di responsabilità. Durante il cinquantenario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Amnesty raccolse 13 milioni di firme in tutto il mondo che consegnammo a Kofi Annan. Nello stesso periodo celebrammo la prima Riunione dei difensori dei diritti umani a Parigi, cui parteciparono più di trecento organizzazioni e ottenemmo che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite designasse un rappresentante speciale per proteggere i difensori dei diritti umani. Anche il ’98 fu un anno importante per il caso Pinochet e per la firma a Roma dello Statuto del Tribunale penale internazionale. Vita: Quali i semi da piantare per il futuro? Sané: Per prima cosa, l’assunto dell’indivisibilità dei diritti. Non si possono scindere i diritti umani, devi lavorare per la loro conquista come fossero un tutt’uno con quelli politici, civili ed economici. C’è poi la sfida dell’impunità: dopo Pinochet, la lotta contro l’impunità deve essere estesa a tutti quelli che hanno violato i diritti umani. E poi la sfida dell’identità: fino a oggi il nostro lavoro si è focalizzato sulle vittime della libertà di espressione, oggi il nostro compito è lavorare per le vittime dell’identità etnica. Le sfide sono imponenti: come organizzarci per difendere tutte queste persone? Come mobilitarci per lanciare campagne contro la pena di morte, la tortura dei prigionieri e la difesa dei rifugiati? È difficile, ma ce la faremo solo basandoci sul principio che i diritti umani sono di tutti: la sfida fondamentale sta nell’universalizzazione dei diritti. La gente cerca la sua identità nazionale come risposta al movimento di globalizzazione, e questo apre le porte al fondamentalismo. Per Amnesty la difesa dei diritti umani viene prima dei passaporti o delle religioni. Vita: Il tribunale penale internazionale resterà un’utopia? Sané: Io credo di no. Nella conferenza di Roma non solo 120 Stati hanno votato a favore dell’adozione dello Statuto del Tribunale penale internazionale, ma in 139 lo hanno firmato e 29 fra questi – quasi la metà del numero necessario per costituire il Tribunale – lo hanno ratificato. Questa è la testimonianza del fatto che i governi di tutto il mondo credono che il Tribunale possa ottenere risultati concreti nella lotta all’impunità. Vita: Sente di aver raggiunto le sue mete dopo questi dieci anni nell’organizzazione? Sané: Per la maggior parte sì. Gli anni Novanta, per me, hanno rappresentato un periodo di adattamento: ho preso tempo per capire quale nuovo mondo stesse sorgendo dopo la fine della guerra fredda, col fatto che ormai esisteva una sola superpotenza. Ho fatto un’analisi del crollo del socialismo nell’Europa dell’Est, dello sviluppo nella maggior parte dei Paesi del Terzo mondo e della globalizzazione dell’economia. Ho pensato che la globalizzazione rivestisse un ruolo centrale nell’aumento dei conflitti e che provocasse certe trasformazioni anche nelle violazioni dei diritti umani. Mi sono chiesto come tenere costante la pressione contro chi viola i diritti e come agire affinché i cambiamenti durino nel tempo. Allo stesso modo mi sono proposto di promuovere i diritti socioeconomici. Queste sono state alcune delle nostre sfide di cui sono stato promotore in questi anni. Ora, quando torno a leggere quei documenti, penso che più o meno sono riuscito a ottenere ciò che mi ero prefissato, cioè portare l’organizzazione a sentirsi pronta per muoversi nel ventunesimo secolo. Quando ora guardo ai difensori dei diritti umani, mi rendo conto di quanto il cambiamento sia stato imponente.


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