Albania
Hub per i rimpatri nei Paesi extra Ue: ecco perché sono privi di base legale
Dopo l’ultima riunione del Consiglio dell’Ue che ha esaminato il progetto di nuovi centri di detenzione per stranieri “irregolari” da ubicare al di fuori dei confini degli Stati membri, il ministro Piantedosi ha avanzato l’ipotesi di “riconvertire” i centri di Shengjin e di Gjader in Albania, attualmente vuoti, in centri per il rimpatrio. Ma il vero problema, che si cerca di nascondere dietro la proposta di espulsioni verso Paesi terzi “hub di rimpatrio”, consiste nella mancanza di accordi di riammissione effettivamente operanti con i Paesi di origine

Dopo l’ultima riunione del Consiglio dell’Unione europea, che tra altri argomenti (come il riarmo europeo e le guerre in corso) ha esaminato il progetto di nuovi centri di detenzione per stranieri “irregolari” da ubicare al di fuori dei confini degli Stati membri, in Paesi terzi definiti come “hub di rimpatrio”, il ministro Piantedosi ha avanzato l’ipotesi di “riconvertire” in questa direzione i centri di Shengjin e di Gjader in Albania, attualmente vuoti. Che potrebbero funzionare come Cpr, essendo questa funzione, secondo il ministro, già prevista dal Protocollo d’intesa formato nel 2023 dal primo ministro albanese Edi Rama e da Giorgia Meloni. Per il titolare del Viminale, anche questi centri “potrebbero avere un ruolo per rafforzare il sistema per rimpatriare i migranti irregolari”.
Si tratta di un’ipotesi che dovrebbe servire a coprire il fallimento del modello Albania, ma che appare priva di basi legali e di dubbia sostenibilità operativa, pure ammesso che il Governo albanese, che va incontro ad elezioni assai difficili, accetti una modifica sostanziale del Protocollo. Che in atto prevede il trasferimento in Albania non di immigrati irregolari già presenti in Italia, ma soltanto di naufraghi potenziali richiedenti asilo, soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, sempre che non si tratti di persone vulnerabili, e provengano da “Paesi di origine sicuri”.
Si parla già di un nuovo decreto legge “Albania” quando a Bruxelles la discussione sugli hub di rimpatrio in Paesi terzi è ancora all’inizio, e soprattutto quando la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, tuttora vigente, non prevede “rimpatri” fittizi attraverso Paesi terzi. La Direttiva non è stata ancora sostituita dal nuovo Regolamento sui rimpatri, che pure apre questa possibilità, ma non entrerà in vigore prima del 2027, dopo avere superato una complessa procedura di codecisione tra Parlamento europeo e Consiglio dell’Ue.
ll vero problema, che si cerca di nascondere dietro la proposta di espulsioni verso Paesi terzi “hub di rimpatrio”, consiste nella mancanza di accordi di riammissione effettivamente operanti con i Paesi di origine. Le statistiche italiane in materia di rimpatri forzati mostrano dati forniti dal Viminale espressi soltanto in termini percentuali, ma il numero di stranieri irregolari effettivamente rimpatriati non va mai oltre qualche migliaio all’anno ed ha oscillazioni periodiche di poche centinaia di persone, che però vengono spacciate come “successi”, magari per aumenti del venti o del trenta per cento rispetto all’anno precedente.
Per aumentare il numero degli immigrati irregolari effettivamente allontanati dall’Italia non si può fare ricorso a procedure di finto “rimpatrio” esternalizzate in Paesi terzi, in assenza di una base legale, sia a livello euro-unionale che nell’ordinamento interno. Nel quale non si possono introdurre, magari per decreto legge, disposizioni in materia di libertà personale, che, derogando alla riserva di legge imposta dall’art.13 Cost, rimettano di fatto alle autorità di polizia, anche di Paesi terzi, la concreta modulazione dei provvedimenti restrittivi, sottratti ad un effettivo controllo giurisdizionale, in contrasto con quanto previsto a tale riguardo da Convenzioni internazionali, come la Cedu, e dalla vigente legislazione europea, da inquadrare nell’alveo della Costituzione italiana (artt.3,10,11, 24 e 117).
L’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea ha messo in chiaro che, se gli Stati dovessero utilizzare fondi europei per coprire i costi dei centri hub di rimpatrio in Paesi terzi, allora a tali fondi si applicherebbero le garanzie specifiche per i diritti fondamentali previste dall’Ue. E gli Stati membri “dovranno garantire un accordo giuridicamente vincolante con qualsiasi Paese non Ue che ospita un hub”,che rispetti i diritti sanciti dal diritto europeo e che chiarisca “le modalità di trasferimento verso l’hub e dall’hub al Paese d’origine”. Perché il principio di legalità sancito in materia di libertà personale dall’art.5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo non è aggirabile trasferendo in Paesi terzi extra Ue, diversi da quelli di origine, gli immigrati irregolari che non si riesce ad espellere dall’Italia.
Il Giudice di Pace di Roma, con quattro ordinanze di identico contenuto,( nn. 209-210-211-212/2024 pubblicate in G.U. n. 47 del 20.11.2024), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, secondo comma, del decreto legislativo n. 286, relativo ai centri di permanenza per i rimpatri. La riserva di legge sancita dall’articolo 13 comma 2 della Costituzione è “assoluta”, la disciplina è riservata alla legge del Parlamento italiano, con esclusione di altre fonti. Come è noto, e ribadito da autorevole dottrina, nelle materie riservate in via assoluta alla legge, resta escluso l’esercizio del potere regolamentare, salvo che si tratti di regolamenti di stretta esecuzione. Non si vede dunque quale legittimità costituzionale possa avere la detenzione amministrativa quando rimane regolata da un Regolamento (394/1999) che all’art. 21 attua il T.U. 286/1998 in materia di centri per i rimpatri. Analoga considerazione vale per gli hub di rimpatrio in Paesi terzi, che al di là della previsione di una astratta “possibilità” di introdurli in base al nuovo Regolamento rimpatri, rimangono assolutamente privi di una disciplina di fonte legislativa anche a livello europeo, dovendo essere previsti in via di ipotesi, da accordi bilaterali ancora da stipulare tra i Paesi membri e gli Stati terzi, Stati che dovranno però essere ancora individuati dall’Unione europea.
Il numero degli immigrati irregolari presenti in territorio europeo può diminuire soltanto con estese procedure di regolarizzazione permanente e con un pieno riconoscimento della protezione internazionale e dei regimi nazionali di protezione speciale. Utilizzare la possibilità di liberarsi dagli obblighi di rispetto delle garanzie dei diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali Ue, e dalla Costituzione italiana, con il trasferimento forzato degli immigrati irregolari soggetti a procedure di allontanamento forzato verso paesi al di fuori dell’Unione europea, con un ridimensionamento dei diritti di difesa e del ruolo della giurisdizione italiana ed euro-unionale, corrisponde ad una vera e propria sospensione dello Stato di diritto. Si vorrebbe a rimettere alle autorità amministrative, che decidono sui provvedimenti di espulsione, ed agli organi dell’esecutivo, che concludono e gestiscono gli accordi bilaterali con i Paesi extra Ue designati come hub di rimpatrio, la conformazione delle procedure di allontanamento forzato dal territorio dello Stato, e dunque la limitazione della libertà personale, e di tutti gli altri diritti fondamentali che vanno riconosciuti anche agli immigrati in una condizione di irregolarità. (Corte costituzionale – sentenza n.105 del 2001), senza alcuna garanzia che nei paesi terzi siano effettivamente applicate le stesse garanzie dello Stato di diritto, a partire dal diritto di difesa, che dovrebbero valere in Italia, come nel resto dell’Unione europea.
Nessuna forzatura delle garanzie costituzionali o del diritto dell’Unione europea potrebbero garantire poi, anche a fronte dei prevedibili costi economici, che la istituzione di hub di rimpatrio in Paesi terzi possa comportare un aumento delle espulsioni effettivamente eseguite con il rimpatrio nei paesi di origine. Il rischio che si corre è che questa ulteriore stretta repressiva, che corrisponde ad un rilancio dei Cpr in Italia in chiave di garanzia della sicurezza, possa alla fine tradursi, come si è sperimentato da anni non tanto in un aumento delle persone irregolari effettivamente rimpatriate, quanto un ulteriore incremento della clandestinità, su scala internazionale, e della marginalizzazione sociale, che se non giova alle persone che ne sono direttamente vittima, certo nuocerà alle aspettative di sicurezza che si richiamano.
Foto di apertura: Albania, porto di Shengjin. I migranti salgono a bordo di una nave della Guardia costiera italiana a seguito di una sentenza del tribunale di Roma. AP Photo/Vlasov Sulaj/Associated Presse/LaPresse
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